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ebook di ArchigraficA

giovedì 24 novembre 2011

Hermann Muthesius e le sue ville - un saggio di Piergiacomo Bucciarelli

di Giacomo Ricci


Ci sono figure della storia contemporanea dell’architettura che, nonostante il ruolo e il significato acquisito per l’importanza della loro opera progettuale e teorica, sono accantonate dalla critica e dalla storiografia più accreditata. Così, in maniera apparentemente inspiegabile,   alcuni interpreti di rilievo vengono dimenticati e messi da parte.
Poi, il lavoro critico di qualche studioso ne rintraccia, nel tempo,  il senso e li riporta alla luce, mostrandone il reale valore.
Destino, questo, che accomuna molti protagonisti  di quel momento storico dell’architettura contemporanea particolarmente importante che va sotto il nome di Movimento Moderno.
E’ molto probabile che questa operazione di “rimozione” accada proprio perché si tratta di figure, per così dire, “scomode”. Vengono oscurati  esponenti  di spicco dell’avanguardia e dei movimenti più originali e innovatori che non rientrano all’interno degli schemi interpretativi storiografici consolidati e funzionali  all’interpretazione corrente di questo complesso fenomeno dell’architettura a cavallo tra Ottocento e Novecento,  il “moderno” per l’appunto.
Sorte che segna, ad esempio, il cammino di Bruno Taut, figura di indubbio prestigio tra i componenti dell’avanguardia berlinese dei primi anni del Novecento che, poi, è stato “dimenticato” per ricomparire nel suo giusto peso e significato soltanto verso gli anni ’80 del Novecento, almeno se ci si limita al  panorama accademico italiano.
Come ci ricorda Piergiacomo Bucciarelli, autore di un recente lavoro di rilettura delle vicende e del significato di una delle figure emblematiche dell’architettura europea del primo Novecento (Piergiacomo  Bucciarelli, Le ville berlinesi di Hermann Muthesius, Gangemi editore, Roma, 2011) è frequente, negli storici più noti dell’architettura moderna,  trascurare tutto ciò che possa «mettere in dubbio la linearità del processo di formazione del modernismo e l’originalità dell’apporto dei “pionieri” quali interpreti illuminati  dello “spirito del tempo”».
Un’interpretazione, questa,  che ipotizza la “crescita” del Movimento Moderno, come fenomeno privo di contraddizioni, ripensamenti e conflitti. Quella della formazione dell’architettura moderna europea sarebbe, così,  una storia lineare, graduale, metodica, fatta di aggiunte successive nel tempo, di "contributi" progressivi e privi di qualsiasi tensione conflittuale. Modello che farebbe sorridere per la sua ingenuità se non fosse che ci sembra artatamente fraudolento, meditata  e furbesca operazione di occultamento di verità e processi assai scomodi da definire e, per così dire, "digerire". 
Hermann Muthesius, ci ricorda Bucciarelli,  è una di queste figure “dimenticate”. Un nodo critico scomodo, se quello che ho or ora detto ha qualche fondamento di verità. 
La storiografia italiana, ad esempio, si è occupata di Muthesius soltanto in maniera marginale e occasionale. Almeno fino agli anni Ottanta. 
Per la verità c’è stato chi, molto tempo fa, ha studiato  e, in qualche maniera, restituito a Muthesius il suo significato e l’importanza del ruolo svolto nei complicati e turbolenti  processi di formazione dell’ideologia dell’architettura moderna. Sto pensando, per esempio, a due nostri critici, due architetti  che si sono occupati di architettura tedesca e soprattutto  dell’espressionismo tedesco a cavallo del primo conflitto mondiale. 
Franco Borsi e Giovanni Klaus Koenig hanno steso, a quattro mani, un  meraviglioso reportage dal mondo dell’espressionismo architettonico tedesco fiorito nel periodo che va dal 1914 al 1920 circa. Si tratta di  un saggio-regesto che ha oggi il valore di un vero e proprio monumento critico-letterario – ora introvabile – che fu pubblicato nel 1968-69 dal titolo L’architettura dell’Espressionismo. Si tratta di un testo pioneristico e, mi si passi il termine, “rivoluzionario”, soprattutto per il significativo ruolo di catalizzatore dell'attenzione critica e di rivolta nei confronti del piatto conformismo della critica architettonica di quegli anni. Il mondo dell'interpretazione storiografica di quegli anni era  in qualche maniera egemonizzato  dalla voce di Siegfrid Giedion (nel suo Space, Time and Architecture) che,  nel suo tratteggiare le radici del Razionalismo architettonico, operava censure e omissioni a più non posso. A Giedion si univa l'azione critica del nostro, peraltro benemerito, Bruno Zevi che, per tutta una serie di comprensibili ragioni,  stravedeva per Wright e la sua teoria dell’architettura organica ma, odiando con tutte le forze qualsiasi forma di totalitarismo  e  scorgendolo, in nuce, in alcuni angoli dell'architettura tedesca,  trascurava interi settori di formazione dell’architettura moderna.
A torto o a ragione, il risultato di queste visioni critiche era che un’area piuttosto ampia della produttività dell’architettura tedesca degli anni immediatamente seguenti al primo conflitto mondiale veniva praticamente azzerata, passava totalmente sotto silenzio nella sua Storia dell’architettura moderna, uno dei testi formativi di intere generazioni di architetti italiani.
Ma, con il loro lavoro critico,  con la riscoperta delle ragioni dell'avanguardia espressionista, Borsi e Koenig riportarono, sul finire degli anni Sessanta,  l’accento su alcuni episodi molto importanti nella formazione dell’ideologia dell’architettura europea contemporanea. Ad esempio, sempre in quegli anni e degli stessi due autori, è da ricordare un’altra pubblicazione – semiclandestina mi verrebbe di dire – che, prima di qualsiasi altra opera critica,  puntava l’attenzione su di un episodio, direi cruciale, del dibattito e della riflessione sull’architettura contemporanea. Quel piccolo opuscoletto, a cura di Borsi e Koenig, pubblicato da Uniedit nel 1977 dal titolo Il “Deutscher Werkbund” 1914: Cultura, Design e Società, nel quale è riportato integralmente il testo del dibattito – sarebbe più giusto definirlo “conflitto” – avvenuto a Colonia che vide contrapposte le tesi di Hermann Muthesius, presidente del Deutscher Werkbund, e Henry van de Velde, intorno al  ruolo dell’architettura, dell’architetto e se fosse necessario avere all’interno del processo produttivo dell’architettura una forte presenza artistica o meno.
Se poi si tiene presente la monografia pubblicata da Electa qualche anno dopo  (1981) dal titolo Muthesius, apparsa in occasione dell’omonima  mostra organizzata da Silvano Custoza e Maurizio Vogliazzo a Milano, contenente una serie di interventi molto qualificati su Muthesius, si capisce come la figura dell’architetto tedesco  non fosse del tutto sconosciuta alla nostra cultura architettonica.
Ma il fatto è che non le si è dato il dovuto rilievo. Questo, in estrema sintesi,  ci ricorda il saggio di Bucciarelli. Un rilievo che fosse corrispondente alla portata delle idee e dei progetti dell’architetto tedesco, nato nella Turingia nel 1861.
Quello che ora Bucciarelli ci propone è un saggio approfondito e puntuale su Hermann Muthesius, sulle sue idee e aspirazioni, l’importante ruolo di trade union che ebbe tra la cultura inglese di fine Ottocento e quella tedesca degli inizi del  Novecento e, soprattutto, la capacità che egli ebbe di adattare  l’idea di casa ai tempi e  alle tecniche moderne,  senza svilire il valore della tradizione e delle invarianti antropologiche che all’architettura domestica davano significato e sostanza. La capacità, insomma, di legare  le esigenze della vita moderna e della sua produttività alla solidità delle tradizioni e delle particolarità geografico-antropologiche.
Aver soggiornato per ben sette anni in Inghilterra, portò Muthesius alla stesura del famosissimo manuale sull’edilizia domestica britannica,  Das Englische Haus, un testo ricchissimo di osservazioni sulla prassi costruttiva, i materiali, le valenze stilistico-formali della Country House inglese e il suo significato. Ma soprattutto, lo portò verso la teorizzazione della Landhaus,   un vero e proprio “progetto storico-culturale” che era sia il prodotto di una riflessione moderna sulla casa e il suo progetto, sia «il giusto coronamento di consuetudini architettoniche oggettivamente legate alla nazione tedesca, l’espressione dei costumi di una borghesia che si rifletteva nelle sue ville eleganti e progettate in modo pratico».
Perché, al di là del ruolo svolto nel Werkbund e delle sue teorizzazioni generali – ad esempio il concetto di Typisierung sul quale tra un attimo torneremo – Muthesius è soprattutto l’elegante fabbro, l'artefice raffinato  che realizza splendide residenze suburbane per la borghesia, che induce gli esponenti di questa classe a  questa scelta di vita, fatta per metà di spirito metropolitano ma, per metà di fuga dalla città, di un vivere secondo la tradizione e la coerenza a modelli antropologici consolidati nella storia locale.
Direttamente discendente dalla Country House, la Landhaus non si impianta nella campagna, ma nel sobborgo, ai margini della grande città. Merito di Muthesius è stato, ci dice Bucciarelli, non soltanto quello di convincere la buona borghesia a scegliere questo modello di vita, ma anche a rinunciare alla casa come simbolo del proprio benessere, del proprio status privilegiato, a bandire, dal suo stile di vita, ogni pretesa estetica, ogni riferimento alla bellezza aulica e artistica classica. E questo atteggiamento  fa di Muthesius un precursore della modernità più razionale ed efficiente. Lo accomuna ad altri grandi e illustri personaggi come Adolph Loos.
«I progetti di Muthesius rispondevano al programma di un funzionalista ante-litteram: assicurare il comfort e l’intimità»  ed egli  fu tra i primi «a scorgere nei prototipi britannici i capisaldi del funzionalismo degli anni venti – sole, aria e luce – e a importarli nel suo paese».
Dicevo poco fa del concetto di Typisierung. Quello della “tipizzazione” fu uno dei temi forti del Congresso di Colonia del 1914,  intorno al quale si scatenò un vero e proprio  conflitto culturale tra Muthesius, che presentò dieci tesi per dimostrarne la validità  e il suo significato legato alla moderna produzione industriale  e il suo oppositore Van de Velde che, al contrario, sosteneva  che l’architettura non potesse essere disgiunta dallo spirito dell’arte e altresì propugnava  la supremazia dell’artigianato sulla produzione industriale.  Un dibattito vivo e vitale, nient’affatto tramontato,  che anche oggi fornisce lo spunto per  considerazioni attuali e importanti. Oggi potremmo schierarci per l'una o l'altra parte (io, per esempio,  propenderei per la tesi di Van de Velde). L'importante, in ogni caso, non è da che parte stare ma il fatto che ci sia dibattito e vivacità culturale. Cose che, oggi, sembrano venire meno, schiacciate sotto l'urgenza del dato economico. 
La continuità e l’attualità  di temi trattati più di cent’anni fa  ci mostra come l’opera di architetti come Muthesius, ingiustamente ignorata, meriti di essere approfondita con maggiore attenzione e possa farci comprendere molti dei conflitti che ancora oggi caratterizzano la produzione architettonica contemporanea.
Saggio importante, questo di Bucciarelli, che contribuisce  a farci rintracciare la radice di alcune contraddizioni del moderno in architettura e induce una  maggiore comprensione della storia e   del mestiere di architetto.
Tutti quelli che vogliono avere un panorama completo e criticamente articolato del Movimento Moderno e delle sue origini concettuali troveranno questo saggio opportuno e utile.  
Da leggere.


Piergiacomo Bucciarelli, Le ville berlinesi di Hermann Muthesius, Gangemi editorer, Roma, 2011 (109 pp.)


gangemi editore


mercoledì 16 novembre 2011

Santo Piazzese e il "cazzeggio"

 di Giacomo Ricci


Circa una settimana fa, Cristina Censi mi consigliò di leggere I delitti della via Medina Sidonia di Santo Piazzese. Un libro vecchio, del '96, pubblicato da Sellerio, di cui non sapevo nulla. L'ho fatto e ne sono stato contento. Un libro leggero, un giallo sui generis, un autore che non conosco e che, come racconta Holden, quando hai letto un  suo libro vorresti leggere tutte le cose sue e vorresti "che l'autore fosse un tuo amico per la pelle e poterlo chiamare al telefono tutte le volte che ti gira". 
Sì, la voglia è proprio di farci due chiacchiere, sull'Università, sulle prospettive, chiedere che sta leggendo, che pensa dell'ultimo libro di Camilleri e che cosa ha in mente ancora di scrivere. 
Una sensazione difficile da provare, questa, di sentirsi amico di uno sconosciuto. Ne cerchi la foto sul web, leggi chi ne parla e, magari, un'intervista da vedere in youtube.  Allora ho scritto subito a Cristina per ringraziarla della scoperta, del suggerimento. E ho pensato che le cose che ho scritto possano essere utili a qualcuno sul blog. Ecco dunque la lettera.

" Cara Cristina,
ho letto I delitti della via Medina Sidonia. Direi che il tema principale del libro, per la verità assai gradevole nel tono generale, è il “cazzeggio”.  E mi spiego, perché è cosa importante.
C’è una frase di Eduardo De Filippo ne Le voci di dentro, che è una commedia cupa ma che a me piace infinitamente, nella quale Eduardo parla del “papariamiento”.
Papariarsi, comportarsi cioè  come una papera, nel camminare soprattutto. Papariarsi è camminare per casa quando non si ha nulla da fare e si perde tempo a spostare un mobile, a cambiare posto a un quadro. Papariarsi, ciabattare qua e là, a piedi leggermente divaricati, guardandosi in giro, senza che l'ansia di uscire ci prenda.  "Quanto è bella questa nostra lingua”, dice Eduardo,  perché con un solo  vocabolo dà conto di un’atmosfera, di uno stato d’animo.
Cazzeggiare vuol dire più o meno la stessa cosa, anche se indica un comportamento  di scrittura,  perdere tempo (o prender tempo, è lo stesso), divagare, passeggiare, andare alla deriva, approfittare di una situazione per fare scorrere le idee liberamente, associandole quasi fosse una seduta dallo psicanalista, per vedere, come dice Jannacci, “l’effetto che fa”. Illustrissimo predecessore, antesignano di questa tendenza è il mio adorato Robert Walser che ne La passeggiata traccia l’apoteosi di questo modo di sentire la vita. Sintesi della sua filosofia: sono perdente, nessuno mi si fila, non valgo nulla … e chi se ne fotte? Chi è meglio di me? Filosofia che, oggi, con mercati, valore, banche, borsa, fallimenti, debiti, speculazioni  e complicazioni varie, è assolutamente da tenere in profonda considerazione.
Alla fine il mio vero valore è la vita. E chi me la leva? I soldi? Ma andatevene a quel paese voi e i soldi! Come diceva un tale (nel libro di Piazzese),  quando muori sull’auto che ti trasferisce all'altro mondo non puoi montare il portabagagli e portarti appresso la rrobba. Quella la lasci tutta qua.  La morte, ‘a livella di cui parla asciutto, essenziale,   geniale come sempre, l’illustre principe Totò,  non fa eccezioni con nessuno. Non l'ha fatto con i faraoni che si erano preparato quel ben di dio per la loro villeggiatura oltre la morte, figurarsi con un borghese del terzo millennio. 
E Piazzese fa questo con consumata abilità, perde tempo, riempie le pagine bianche di segni, di parole che ci informano sui suoi gusti musicali, e le addensa  di citazioni letterarie (in specie Il giovane Holden, libro per il quale nutre un’ammirazione sconfinata). Un cazzeggio, un citarsi addosso, un arravogliarsi, un perdersi che credo sia nella migliore tradizione salottiero-letteraria del Sud, di un Sud sano e strafottente, che indugia al sole, alla bella giornata, alla ricerca di un senso leggero delle cose, che sia un tantino un po’ più su delle cose, che voli come un’arietta leggera e spiritosa.
Marotta, Gli alunni del sole, Ferdinando Sorice in testa, portiere e filosofo.
Perché poi è ironico, sfottente, prende in giro sé e gli altri.
Il delitto è assolutamente secondario.
Parla di morti ammazzati per parlare d’altro, anzi per non parlare affatto ma rimandare ad altro, a un mondo parallelo. Mostra l’inettitudine e la nefandezza della classe dei professori universitari, una tensione morale – e proprio il caso di dire – che, come sai, mi trova completamente d’accordo.
Insomma ho deciso che mi leggo anche gli altri due che ha scritto, che fanno parte della Trilogia su Palermo pubblicata sempre da Sellerio. Anche perché, nel terzo libro, pur con gli stessi personaggi e con ampi riferimenti al primo, ho capito che ribalta il punto di vista e lo stile diventa giallistico al massimo, asciutto, sincopato, scarno. Abbandona il racconto in prima persona e assume la funzione del narratore universale, quello impersonale, oggettivando, rimescolando l'atmosfera in una più sofferta visione del mondo. Ma devo ancora leggere. Le mie sono anticipazioni-sensazioni che ho filtrato attraverso la sbirciata delle prime pagine. 
Insomma Piazzese appare  scrittore con gli attributi a posto. Mi è venuta voglia di conoscerlo, come dice il giovane Holden.
Non so come fare ma ci proverò.
Grazie insomma della tua segnalazione.
A presto".

E poi, alla fine, il giallo c'è e si conclude - c'era da dubitarne? - nella migliore atmosfera classica, di cui era  maestro  Simenon, dove anche gli assassini sono uomini con le loro debolezze, la loro miseria e, diciamolo pure, anche a loro dignità, perché scelgono di abbandonare  la scena al momento giusto, consapevoli di aver perduto la partita.  
E l'io narrante si carica di una profonda umanità. 
Chissà forse riesco a conoscere Piazzese e, magari - lasciatemi fantasticare - a strappargli un'intervista per il blog. 
Comunque leggetelo. Ne vale la pena. 


allego un link alla pagina di Piazzese su Facebook:


Santo Piazzese su FaceBook

venerdì 23 settembre 2011

Lazzari, appunti sparsi ..., 5

Gaspar Van Wittel, Palazzo Cellammare (part.)



di Giacomo Ricci

scena cinque: il morto

«Ma il piede mi fa male» feci appena in tempo a dire. Il prof, a valanga, mi tappò la bocca. 
«Jack, non mi far perdere tempo. Corri. Qui tra due minuti!  Fa ‘n culo a sta ccà. ‘E subbeto. Chiù ‘e pressa possibile!».
Giuliano De Luca non mi diede il tempo di dire una parola. Una furia scatenata.  Quando diceva male parole in dialetto stretto  cose straordinarie erano accadute. La fine del mondo come minimo. Un cadavere da qualche parte, forse. Ora che stavo imparando a conoscerlo, potevo essere certo. 
«Che perfetto italiano!» osai scherzare. Poi la buttai lì: «Un morto? Dead people?».
Il gelo di un lunghissimo attimo di silenzio. 
Gesummio, my God! Avevo indovinato!
«C’è anche qualcos’altro. Cchiù liéggio, ma pure tiene l’importanza sua. Vieni più presto che puoi»  disse, voce bassa,  le ultime parole in perfetto italiano. Serio, glaciale.
Riattaccò, lasciandomi con la bocca aperta.
Guardai l’orologio della cucina. Le sei. Cazzo, un morto, pensai.    Ma uccidessero lui, il prof! Alle sei già caricato come una molla pronta a scattare, a settant’anni e passa. Io, a quarantadue, ridotto a una specie di rudere. La natura non è giusta. Fa schifo. Ma bisognava sbrigarsi. Scendere in fretta. 
“Una parola, con quest’impiastro”, pensai, guardandomi il piede. 
Non vale chiedersi che c’entravano i morti con il nostro lavoro di universitari. Lui vecchio ordinario di filosofia della “Federico II”, interprete di antiche scritture, esperto nel restauro di vecchie pergamene e manoscritti. Io, non più giovanissimo ricercatore,  antropologo, italiano e americano allo stesso tempo,   con il pallino dell’arte medievale,  mandato a Napoli dalla Italian Accademy della Columbia University,  per una ricerca sul campo, inseguendo un’idea strampalata di affinità tra i lazzari seicenteschi e la manovalanza bruta della camorra contemporanea. 
«Exotic but interesting» aveva detto il manager del dipartimento di storia della Columbia della mia idea, con un mezzo sorriso compiacente, mentre firmava il mio lasciapassare culturale per l’Italia e l’assegno di ricerca necessario alla mia sopravvivenza.
Mi era venuta in mente l’idea, che  si potesse ipotizzare l’esistenza di invarianti mentali che definirebbero i comportamenti umani, in particolari strati di popolazione, anche al di là delle contingenze storiche e geografiche. Una di quelle cazzate che gli antropologi, in vena di una qualche malcelata metafisica, s’inventano di continuo  per dare spessore a una disciplina impalpabile e sempre più inconsistente. 
Argomento rarefatto, lo ammetto. Magari una vera e propria panzana. Ma era funzionale alla mia voglia di riscoprire la città natale di mia madre, e il popolo al quale per metà appartenevo. Non da turista, ma penetrandone i meccanismi più segreti. 
De Luca mi aveva accolto nell’Università di Napoli, accettando di seguire la mia ricerca sul campo. Così mi ero trasferito, da qualche anno, nella  città dei miei nonni materni. E, per tutta una serie di scambi e interdipendenze accademiche troppo complicate da spiegare, lui, in qualche modo, era diventato il mio capo, qui a Napoli. 
Interessante averci a che fare. Ma assai pignolo, esigente, o, come dicono i Napoletani, un vero scassacazzo. 
I morti col nostro lavoro c’entravano. Più spesso che non si creda. Altrimenti mai, per nessuna ragione al mondo avrebbe preteso che, con un piede fracassato, mi precipitassi a rotta di collo da lui, in dipartimento. Dittatore sì, ma illuminato.
Come avrei fatto? 
Le stampelle, innanzitutto. Poi buona volontà.  A strafottere. Quella non mancava mai, o quasi. E poi Minichiello, la mia salvezza. Di professione portiere, ma factotum per vocazione. Proprio come i barbieri latini del Bronx. Tutte le volte che poteva si rendeva disponibile. Miniera, vulcano di soluzioni improvvisate, geniale furfante nell’arte di arrangiarsi. L’essenza del napoletano, internazionale per vocazione e genio.
Lo chiamai al cellulare.  Incrociai le dita. Speravo che avesse il telefono con sé. Rispose subito.
«Eccomi qua. Buongiorno».
«Minichie’?».
«Sì, professo’, dimmi tutto». 
«Ho bisogno di te, subito. Immediately». Mi accorsi che quel “subito” era alla De Luca. Il prof mi stava plagiando.
«Che’, professo’, s’è scassata la wash machine?».
«Minichie’ non sfottere».
Palazzo importante di Monteroduni quello dove Menico prestava servizio. Con una grande corte centrale, luminosa, scenografica che, per metà, s’affacciava nel giardino di Cellamare, uno dei più favolosi di Napoli.  Non come il mio palazzotto seicentesco, piccolo, buio, di Via Santa Teresella degli Spagnoli,  più in basso  della casa di Lenór Pimentel Fonseca, verso Sant’Anna di Palazzo. Importanza che si vedeva perché poteva disporre, quando lo voleva, di un sostituto, un secondo. 
Gli dissi che doveva accompagnarmi in Facoltà. Subito. Il tono di De Luca non ammetteva deroghe.
«E mo volessimo fa’ piglià collera ‘o professore?  Dammi cinque minuti e sono da te». 


(c) copyright Giacomo Ricci per ArchigraficA Edizioni 2011 - all over the word
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Poche parole su Lazzari


Lazzari, appunti sparsi per la rivoluzione è dedicato a
Mario Varriale, ultimo contadino della campagna alle pendici  della collina di San Martino, a un passo dalla Certosa. 

giovedì 22 settembre 2011

Lazzari, appunti sparsi ..., 4

Domenico Gargiulo (Micco Spadaro),  La punizione dei ladri ai tempi di Masaniello



di Giacomo Ricci


scena quarta: una macchina nella notte





Mi svegliai sudato, il cuore sobbalzava nel petto. Il dolore era aumentato. Come ogni notte. Alla fine dell’effetto delle pasticche. Un fuoco maligno nella caviglia. Anche se meno accentuato persisteva, rodendo la carne. Non realizzai immediatamente di essere sveglio. 
Immagini confuse del sonno fluivano ancora nell’aria, scivolavano lentamente sugli oggetti, sulle volute delle lenzuola che giacevano spiegazzate in terra.
I gatti erano scesi dal letto e si erano sdraiati fuori, sul balcone, a cercare un debole filo d’aria.
Maledette pillole. Dilatavano e torcevano la testa. Nel sonno era come cadere, scendere giù, sprofondare all’indietro, vertigine senza fine. Questione disperata riemergere, sempre. Qualcuno mi tirava verso l’alto da quel pozzo senza fondo con un argano che strideva e un cavo che stringeva furiosamente il piede, a spezzarlo.
Ripresi fiato. 
Aveva preso a piovere. L’acqua era venuta giù, di colpo, in grande quantità. 
I gatti dal terrazzo fuggirono dentro scrollandosela dalle orecchie. 
Sete, la gola secca. 
Mi sollevai con infinite precauzioni e zoppicando raggiunsi la cucina. Mentre l’acqua scorreva nel lavello, mi sembrò di udire, nel frastuono della pioggia, voci soffocate, nascoste, gemiti trattenuti. 
Prestai attenzione. Salivano da sotto, dalla vanella.
Passai nel bagno senza accendere la luce. La finestra della ragazza era proprio sotto il finestrino del mio bagno. La luce era accesa ma, da quella posizione, non era possibile vedere all’interno. Avrei dovuto, contemporaneamente, essere dall’altra parte della casa, nell’ingresso. La vanella faceva, però, da cassa acustica e, in condizioni normali, si udiva proprio tutto. 
Ora la pioggia con il suo rumore copriva ogni suono.
La sua voce e un’altra di uomo, decisa, roca, che scandiva volutamente le sillabe con lenta cattiveria.  Non riuscivo a decifrare il significato delle parole che pronunciavano in fretta. 
Si mescolavano in un brontolio diffuso, sordo, monotono come il rumore di un motore appena acceso. Ogni tanto la sua voce si alzava di tono quasi a diventare acuta.
«Non posso ... non ancora ...» mi sembrò che dicesse. 
Restai in ascolto. Un’inquietudine mi aveva assalito senza alcuna ragione. Un rumore secco, improvviso, uno schiaffo o una porta chiusa con impeto. 
Poi la pioggia aumentò di violenza. 
Nient’altro.
Forse dormivo, sognavo, rincoglionito dal dolore e dai sedativi. E, poi, le loro storie di miseria, miscugli di urla, percosse e bestemmie. Perché meravigliarmene proprio ora?
Ero venuto per studiarli, non per farmi coinvolgere dalle loro passioni. Cavie. Non erano niente di più per un antropologo in vena di scoperte come me.
Trascinando il piede tornai nella stanza da letto. Diedi uno sguardo all’orologio. Le tre. 
Notte ancora lunga da passare. 
Ma il caldo almeno si era in parte disciolto nella pioggia che continuava a cadere fitta.
Udii, prima di riaddormentarmi, una macchina allontanarsi nella notte sgommando con rabbia.


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Lazzari, appunti sparsi ..., 3

Proseguo? Se no vi scoccia proseguo. Fatemi sapere ,,,

(ho parlato di Masaniello. Per il  momento anticipiamo una sua immagine)
Onofrio Palumbo, Ritratto di Masaniello

di Giacomo Ricci

Macché, non ha smesso di farmi male».

«Ma il dolore è più tollerabile?». La voce di Rosetta dall’altra parte del telefono appariva preoccupata. 
«Ma perché» aggiunse «una buona volta, non ti decidi a venirtene qua, io potrei …».
«No! No e basta. Che cosa ci farei in quel paesino sperduto? Dovrei stare a guardarti sistemare l’orto, le galline, i cani, i gatti. Magari imparare a fare torte e crostate e mettermi a impastare pastarelle, pastecresciute e sufflì dalla mattina alla sera? Scendere una continuazione di casa per farti commissioni in giro. Ogni mattina alle sei la corriera, avanti e indietro da Napoli ...».
«E perché no? Non ci vedo nulla di strano …».
«No! Tu sei capace di barcamenarti tra la tua laurea  appesa al muro, un quadretto dell’Immacolata e una ricetta di Frate Indovino. L’hai ridotta a una moppeen per pulire in cucina. Io voglio che i miei studi mi servano qui, in città, tra la gente. Ci sono venuto apposta. Ho abbandonato le comodità della Columbia University. Mi piace ‘a folla ‘e Napule.  Miezo ‘a folla sto bbuono!».
Il mio accento napoletano era penoso. Non mi liberavo del brooklynese imparato da giovane per le vie  di Manhattan e Little Italy.  Questo la faceva incazzare ancora di più. 
La discussione si gelò, come sempre accadeva quando parlavamo delle nostre scelte di vita. 
Le distanze diventavano enormi, di colpo. Se ne stette zitta per alcuni secondi. Avrebbe riattaccato. Lo fece.  La solita  dichiarazione. Bisognava vedere quanto sarebbe durata. 
Posai nero il telefono. Se ne stesse confinata ai margini del mondo, se le faceva piacere. A farsi fottere lei,  la terra, la campagna e tutto il resto. 
Ma senza di me. Non ero venuto fin qui dall’America in vacanza. Dovevo capire chi ero, a quale cultura appartenevo. I cani bastardi sono più intelligenti di quelli di razza. Gli umani non lo so. Certo sono più irrequieti. Smaneano. 

Per fortuna le pillole cominciavano a fare il loro effetto. Tirai un respiro di sollievo.  La ganascia stretta al collo del piede si trasformava in un sordo cordone di stoffa che si allentava a poco alla volta. Gli occhi si chiudevano a forza. Ma c’era ancora Arturo da sistemare. Non potevo lasciarlo fuori, sui tetti. Faceva più caldo e il cielo appesantiva densi neri cumuli di nuvole basse. Si sarebbe messo a piovere, come ogni notte.
Guendalina se ne stava già sdraiata ai piedi del letto, sprofondata con la testa all’insù e le zampe anteriori distese. 
Coraggio. Mi afferrai al bastone. Il mio chiodo al pavimento. Un’impresa quella che mi aspettava.
Il percorso era lungo. L’ingresso era nel lato opposto della casa che si sviluppava tutta in lunghezza. Tante stanze l’una dentro all’altra secondo il classico modello barocco napoletano.
L’ostacolo più grande era il dislivello a metà strada tra lo studio e la cucina, superato da una piccola scaletta interna. L’avevo trovata addirittura bella, con i suoi gradini di piperno lisciato, quando avevo affittato l’appartamento qualche mese prima. Fin quando non c’ero caduto. Va fongool.  Afoonah into ‘a merd. Mi sta bene. Accussì me mparo. 
Ma Arturo, il mio gatto nero, meritava lo sforzo.

Bella. Capelli e occhi neri, lucidi, pelle bruna e il corpo agile e nervoso. Great ass. Non me n’ero mai accorto. Occhiate distratte per le scale, quando capitava. Saluti in fretta. Poi sempre inghiottito dalla solita fretta, quella che, come una molla tesa dentro, m’impediva di seguire la vita più da vicino, accorgermi del suo scorrere.
Dovevo, insomma, ringraziare Arturo e il dolore al piede che mi aveva costretto a sedere sul piperno della finestra d’ingresso. E, nel buio che mi avvolgeva, senza rendermene conto avevo guardato fuori. Gli occhi mi si chiudevano per pasticche e sonno ma, nell’oscurità della notte, la finestra illuminata di fronte, anche se distante, aveva attirato la mia attenzione. 
L’avevo vista. Osservavo la schiena nuda, mentre, seduta sul pizzo del letto, si rivestiva con lentezza. L’uomo le era passato accanto e, dopo averle strusciato lentamente la mano sulla spalla, aveva posato il denaro sul comò, uscendo dal campo visivo della finestra. Lei si era alzata per seguirlo. Lui l’avevo riconosciuto per la testa  rasa. Lo chiamavano ‘o Capaliscia. A perfectly skinhead. Manovale del pizzo di quartiere. Capo dei fuochisti.
La luce si era spenta lasciandomi nel buio dell’ingresso con Arturo che aveva poggiato la testa sul mio ginocchio. Se la lasciava carezzare e faceva le fusa.



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Lazzari, appunti sparsi per la ..., 2

Un vicolo di Napoli, stretto e affogato come una vanella

di Giacomo Ricci

scena 02: la vanella


Nella debole luce del bagno la pasta uscita dal tubetto brillava sulle setole dello spazzolino. Il rumore, su e giù per i denti. L’ipnosi che ogni movimento ritmico del corpo mi procurava quando ero stanco. Poi gli antinfiammatori.  Su di me avevano un effetto narcotico. 

Sputai. Centrai il buco del lavandino. Sciacquai la bocca, miscuglio tra un sughero e una spugna. Sputai di nuovo.
Da basso, buio pesto della vanella,  saliva lento odore acre di sfritto di cipolla. Rumore di sciacquone.
Avevo imparato che, in quel posto, non c’era orario per le funzioni corporali. A Napoli, le cose non vanno come si aspetta uno come me, venuto in questa città dagli States per studiare, approfondire, lavorare all’Università. Non vanno per un napoletano, figurarsi per un bastardo come me. Non vanno e basta.
Non c’era che fare: cucinavano e andavano al cesso a tutte le ore, anche a notte più fonda, secondo ritmi di strane giornate. Totale anarchia del corpo.

Brutto giorno per me. Il piede mi aveva fatto un male da cani. La caviglia stretta in una morsa attraversata da fitte lancinanti. Pulsava come per scoppiare.
Da non credersi. Una semplice caduta in cucina. Quei maledetti gradini. Dolore da morire, da spezzare il fiato. Va fongool all the people.
Dall’ospedale mi avevano dimesso nonostante le mie vivaci proteste. Normale, avevano detto. Dopo il pronto soccorso, via, senza alcuna possibilità di replica. Il letto era per la folla di disperati in lista d’attesa. Neanche una frattura la mia. Semplice distorsione. Feroce per il dolore. Riposo, tranquillanti e sedativi, questa la cura. 
Si poteva fare a casa. 
Ma che pretendevo da una frontiera come il Pellegrini? A getto continuo, moribondi, feriti gravi, sparati, accoltellati, in coma, abbuffati di fetenzie e rrobba da schiattare che schizzava dalle vene squartate, nozzolute, incartapecorite. 
Per qualsiasi altra cosa c’era l’ambulatorio nei giorni stabiliti. Via, fuori dalle palle.  Il medico di turno era stato inflessibile. L’infermiere con ferma gentilezza mi aveva messo fuori dalla porta dell’infermeria. Quickly. As a kick in the ass. 
Così mi ero trovato per la strada, in equilibrio su un piede solo, nel casino della Pignasecca ad aspettare un taxi. 
Strano ospedale, il Pellegrini. Una bella chiesa pensata da uno dei figli di Vanvitelli, inserita all’interno di un palazzaccio meno che mediocre, lurido e malandato, rimaneggiato negli anni della peggiore speculazione postlaurina, in un quartiere ancor più lurido e popolare dove il mercato, i feriti, gli studenti e i viaggiatori si mescolavano, fondendosi come in una brodaglia. Un quartiere che era un vero e proprio suq di discendenza medievale. Nello sporco inenarrabile, aggravato adesso dalla spazzatura che si accumulava ai lati delle strade in cataste sempre più  alte, però, operavano i medici più bravi della città. Come in Afghanistan, sotto gli attacchi dei talebani, in guerra. I terroristi qui erano gli scippatori, selvaggia e brutale progenie della terra, e i fuochisti impazziti della camorra in vena di esecuzioni sommarie in pubblico come quella di Petru, umile suonatore ambulante di fisarmonica, ucciso, per puro caso, qualche tempo addietro. Così, per sbaglio, fai fuori un uomo. Echettenefott. No whako or foolish man. No, solo per gioco. Only a game. Per sbariamiento.
La storia del dolore durava da poco meno di due giorni. In verità, col sole si assopiva. Ma di notte, passata una certa ora, l’inferno. Guai a non mandar giù le pillole per sprofondare in quel nero baratro che sarebbe dovuto somigliare al sonno.
Rimpiangevo di non poter bere un bicchiere di vino. Vietato, aveva detto il medico mentre firmava l’uscita; avrei ottenuto l’effetto contrario. Attacchi di panico, stato di agitazione senza fine.

Ingurgitai tutto. Sopra l’acqua del lavandino. Aveva un sapore diverso da quella della cucina. Molle e profumata, da vomito.
Mi trascinai fuori del bagno con il piede in fiamme. 
Urla improvvise dalla vanella. Succedeva spesso. 
Come fiammate fulminee dalla terra. Lì, in basso, nelle infime propaggini del palazzo c’era, nascosto da qualche parte, un vulcano spalancato, pronto a esplodere. Giù, nel fondo pesto del nero pozzo, qualcuno imprecava, gridava, gonfio di rabbia. Rumore di vetri rotti. Era normale. In quel posto, almeno. 
Nella stanza da letto tutti i rumori provenienti dal sottosuolo, aspirati verso l’alto dal tiraggio di quel sordido buco, si avvolgevano nell’ovatta, sparivano e ciò che ne rimaneva era coperto da quelli del vicolo.  E poi le pillole avrebbero fatto il resto.
Spensi la luce e mi chiusi la porta alle spalle. 
Night guaglio’.


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Lazzari, appunti sparsi per la rivoluzione, 1

Domenico Gargiulo (detto Micco Spadaro), La rivoluzione di Masaniello

di Giacomo Ricci

Lazzari, appunti sparsi per la rivoluzione, è il mio nuovo romanzo, noir napoletano, della serie di "Pietre di Fuoco". I personaggi sono gli stess, Giuliano de Luca e gli altri, alle prese con un nuovo mistero da svelare. Un mistero che affonda verso la metà del Seicento, qualche giorno dopo domenica 7 luglio 1647, quando scoppiarono i moti di ribellione guidati da Masaniello. Quando cominciò la sua "pazzia" ...
Giuliano De Luca mette le mani nella storia e risolve il mistero, individuando colpevoli di quel tempo e di oggi.
Il racconto sarà pubblicato per brevi scene. Buona lettura.





scena 01: per cominciare, un morto

L’avvocato Geppino Silenti stava aspettando ormai da più di cinque minuti. «Sarò subito da lei» aveva detto la donna al cellulare. Si era avviato per la terrazza. Bella la vista da quel posto. Tutto il golfo illuminato. E di fronte l’isola di Nisida con il lungo pontile, le barche attraccate, i lampioni che gettavano  luce gialla che si rifletteva sulle onde. Una notte calma, tranquilla. Una dolce brezza sfilava dal boschetto alle spalle. 
Era da solo. Aspettare gli dava sempre un po’ fastidio, anche se il posto meritava. La signora con la quale aveva appuntamento era in leggerissimo ritardo. Lei aveva chiesto un posto appartato, in un orario fuori mano. Che li vedessero assieme era pericoloso, aveva detto. 
«Io voglio aiutarla. La faccenda mi sta a cuore, ma non ci voglio rimettere di persona» aveva aggiunto con un filo di voce.
«Nessuno dice questo. Nè lo pretenderei da chi mi sta dando una mano» aveva risposto Silenti, con il suo fare un po’ galante, di gentiluomo all’antica.
La faccenda era complicata. Scoprire chi stava soffiando in giro notizie, per così dire, “delicate” faceva parte dei suoi compiti. Tessere tele e trappole. Un ragno al lavoro. Questo amava dire di sé.
Purché la signora si sbrigasse, però. In giro non c’era anima viva.  Il posto era bello. Ma, in quell’ora notturna,  aveva un che di inquietante. La parete di tufo a precipizio sugli scogli, il lontano rumore del mare, le grandi grotte ai piedi della montagna, l’isola solitaria, le luci tremule. Da quel punto s’erano suicidate molte persone, negli anni passati. 
Un rumore di lato. Era lei. Eccola si avvicinava. Alla fine ci avrebbe capito qualcosa se quella donna si fosse decisa a raccontare come effettivamente stavano i fatti. 
La donna si avvicinò e con un sorriso gli tese la mano. La tese anche lui ma un bagliore improvviso in basso gli fece ritirare indietro istintivamente il braccio. 
Si rese conto di quello che stava accadendo solo un istante dopo che l’aria venne smossa dalla lama in movimento. Il primo colpo gli arrivò violento e silenzioso proprio all’altezza dello stomaco come un pugno. Il dolore acuto e improvviso lo fece piegare quasi in due. Portò istintivamente entrambe le mani all’altezza della ferita. Ma il coltello rapido lo colpì al fianco dove le braccia avevano lasciato libero un varco. 
Silenti tentò di spostare la mano dallo stomaco al fianco sinistro ma il pugnale lo colpì di nuovo violento e preciso sul lato destro all’altezza del fegato. Il dolore lo fece barcollare e lo sguardo si annebbiò. Dalla bocca non gli uscì neanche un rantolo. 
Il respirò gli morì in gola. Gli occhiali caddero in terra. Il cappello scivolò di lato sul prato. 
Un colpo da dietro, sferrato da una mano più decisa e potente, più violento gli penetrò all’altezza della spalla destra.
Un groppo di pensieri si affollava nella mente senza sciogliersi abbastanza. Non c’era tempo, … il tempo era giunto al termine. Lo capisci quando sei a un passo dalla fine,  gli avevano detto coloro che avevano scampato la morte per un pelo con i quali aveva avuto spesso a che fare. Sì, pensò rapidissimo, era proprio così. 
«Ci sono caduto come un pivello. Dopo tanti anni finire come uno scemo in un agguato banale, ma che strunzo …» riuscì ancora a pensare Geppino, mentre sentiva le forze venirgli meno e le gambe cedere sotto il peso del corpo massiccio. Il senso di rammarico per la leggerezza compiuta fu anche più forte del disappunto di andarsene all’altro mondo senza sapere chi lo stava facendo fuori.  Poi i pensieri gli si annebbiarono mentre considerava che, in fondo, abbandonare questa valle di lacrime era meno spaventevole che viverci. Affafottere tutti. Finalmente se li levava dalle palle. Un moto di stizza inghiottito da un pozzo nero e profondo …
Da quel momento fu colpito ripetutamente, rapidamente,  con precisione. Con ritmica freddezza le due lame si abbassavano sul corpo che ormai si accasciava a terra. Al primo ferro si era unito l’altro che, da dietro,  aveva preso a colpirlo ripetutamente più forte e con maggiore  precisione. 
Alla fine il corpo stette in terra immobile. Una delle due figure urtò la sua massa con la punta del piede scuotendolo.  Non si muoveva. Era finito. Due  ombre vestite in nero,  indistinte nell’oscurità della notte, lo sollevarono prendendolo per le gambe e le braccia.  Lo sistemarono nel bagagliaio dell’auto, nascosta dietro i cespugli. 
Poi uno dei due estrasse da un lungo fodero una lama più lunga e spessa e l’infilò nel torace di Silenti,  proprio all’altezza del cuore. Un solo colpo netto deciso, in pieno petto, tra una costola e l’altra. 
Pulì meticolosamente la lama. L’infilò nuovamente nel fodero. La ripose. 
Chiuse il portello posteriore. Poi salirono in auto e si allontanarono silenziosamente nella notte. 



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