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ebook di ArchigraficA

giovedì 22 settembre 2011

Lazzari, appunti sparsi per la ..., 2

Un vicolo di Napoli, stretto e affogato come una vanella

di Giacomo Ricci

scena 02: la vanella


Nella debole luce del bagno la pasta uscita dal tubetto brillava sulle setole dello spazzolino. Il rumore, su e giù per i denti. L’ipnosi che ogni movimento ritmico del corpo mi procurava quando ero stanco. Poi gli antinfiammatori.  Su di me avevano un effetto narcotico. 

Sputai. Centrai il buco del lavandino. Sciacquai la bocca, miscuglio tra un sughero e una spugna. Sputai di nuovo.
Da basso, buio pesto della vanella,  saliva lento odore acre di sfritto di cipolla. Rumore di sciacquone.
Avevo imparato che, in quel posto, non c’era orario per le funzioni corporali. A Napoli, le cose non vanno come si aspetta uno come me, venuto in questa città dagli States per studiare, approfondire, lavorare all’Università. Non vanno per un napoletano, figurarsi per un bastardo come me. Non vanno e basta.
Non c’era che fare: cucinavano e andavano al cesso a tutte le ore, anche a notte più fonda, secondo ritmi di strane giornate. Totale anarchia del corpo.

Brutto giorno per me. Il piede mi aveva fatto un male da cani. La caviglia stretta in una morsa attraversata da fitte lancinanti. Pulsava come per scoppiare.
Da non credersi. Una semplice caduta in cucina. Quei maledetti gradini. Dolore da morire, da spezzare il fiato. Va fongool all the people.
Dall’ospedale mi avevano dimesso nonostante le mie vivaci proteste. Normale, avevano detto. Dopo il pronto soccorso, via, senza alcuna possibilità di replica. Il letto era per la folla di disperati in lista d’attesa. Neanche una frattura la mia. Semplice distorsione. Feroce per il dolore. Riposo, tranquillanti e sedativi, questa la cura. 
Si poteva fare a casa. 
Ma che pretendevo da una frontiera come il Pellegrini? A getto continuo, moribondi, feriti gravi, sparati, accoltellati, in coma, abbuffati di fetenzie e rrobba da schiattare che schizzava dalle vene squartate, nozzolute, incartapecorite. 
Per qualsiasi altra cosa c’era l’ambulatorio nei giorni stabiliti. Via, fuori dalle palle.  Il medico di turno era stato inflessibile. L’infermiere con ferma gentilezza mi aveva messo fuori dalla porta dell’infermeria. Quickly. As a kick in the ass. 
Così mi ero trovato per la strada, in equilibrio su un piede solo, nel casino della Pignasecca ad aspettare un taxi. 
Strano ospedale, il Pellegrini. Una bella chiesa pensata da uno dei figli di Vanvitelli, inserita all’interno di un palazzaccio meno che mediocre, lurido e malandato, rimaneggiato negli anni della peggiore speculazione postlaurina, in un quartiere ancor più lurido e popolare dove il mercato, i feriti, gli studenti e i viaggiatori si mescolavano, fondendosi come in una brodaglia. Un quartiere che era un vero e proprio suq di discendenza medievale. Nello sporco inenarrabile, aggravato adesso dalla spazzatura che si accumulava ai lati delle strade in cataste sempre più  alte, però, operavano i medici più bravi della città. Come in Afghanistan, sotto gli attacchi dei talebani, in guerra. I terroristi qui erano gli scippatori, selvaggia e brutale progenie della terra, e i fuochisti impazziti della camorra in vena di esecuzioni sommarie in pubblico come quella di Petru, umile suonatore ambulante di fisarmonica, ucciso, per puro caso, qualche tempo addietro. Così, per sbaglio, fai fuori un uomo. Echettenefott. No whako or foolish man. No, solo per gioco. Only a game. Per sbariamiento.
La storia del dolore durava da poco meno di due giorni. In verità, col sole si assopiva. Ma di notte, passata una certa ora, l’inferno. Guai a non mandar giù le pillole per sprofondare in quel nero baratro che sarebbe dovuto somigliare al sonno.
Rimpiangevo di non poter bere un bicchiere di vino. Vietato, aveva detto il medico mentre firmava l’uscita; avrei ottenuto l’effetto contrario. Attacchi di panico, stato di agitazione senza fine.

Ingurgitai tutto. Sopra l’acqua del lavandino. Aveva un sapore diverso da quella della cucina. Molle e profumata, da vomito.
Mi trascinai fuori del bagno con il piede in fiamme. 
Urla improvvise dalla vanella. Succedeva spesso. 
Come fiammate fulminee dalla terra. Lì, in basso, nelle infime propaggini del palazzo c’era, nascosto da qualche parte, un vulcano spalancato, pronto a esplodere. Giù, nel fondo pesto del nero pozzo, qualcuno imprecava, gridava, gonfio di rabbia. Rumore di vetri rotti. Era normale. In quel posto, almeno. 
Nella stanza da letto tutti i rumori provenienti dal sottosuolo, aspirati verso l’alto dal tiraggio di quel sordido buco, si avvolgevano nell’ovatta, sparivano e ciò che ne rimaneva era coperto da quelli del vicolo.  E poi le pillole avrebbero fatto il resto.
Spensi la luce e mi chiusi la porta alle spalle. 
Night guaglio’.


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