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ebook di ArchigraficA

domenica 28 aprile 2013

Storie di vagabondi metropolitani





di Giacomo Ricci



Caro Mario,

vorrei ringraziarti della serata di sabato scorso alla libreria Guida di Salerno.
Bravissimi  i ballerini, belle le musiche, notevoli i musicisti nell’evocare straniate atmosfere con ricercati suoni, o nell’intonare brevi infuocati assolo di tango alla fisarmonica o alla chitarra. Intonata, infine,  la presentazione di Amelia Imparato, a tono e “ruggenti”, come sempre,  le tue letture di brani del testo.
Si è trattato di un  evento. Forse  potremmo definirlo, un spettacolo, una rappresentazione, in vivo, di idee e concetti che, in un libro, sono congelati nella parola scritta.
Ogni sperimentazione deve essere guardata con attenzione e curiosità. Questo è in generale il mio atteggiamento culturale. Può rappresentare il preludio a nuove forme comunicative. E anche in questo caso le premesse c’erano tutte. Ma, devo subito dire che, nel caso di un libro, si può correre il rischio di deviare l’uditorio dalla lettura.
Mi spiego subito. Lo faccio ricorrendo alle parole di Massimo Troisi. Un comico, spesso, se non sempre, è uno che vede al di sotto della realtà, ne coglie l’essenza e ce la restituisce con una battuta folgorante.
Dice  dunque Troisi:
«Ho abbandonato la lettura perché sono in tanti a scrivere e io solo a leggere, non c’è partita: parto troppo svantaggiato».
Troisi sottolinea,  con il garbo e l’ironia che lo hanno sempre caratterizzato,  uno dei   tanti paradossi, tutti italiani, ai quale ci siamo purtroppo abituati. Che tanti scrivono,  ma quasi nessuno legge.
Allora, come ti dicevo,  enuncio subito la mia perplessità.
Girare attorno all’argomento di un libro con manifestazioni che hanno a che fare con i suoi contenuti ma che non sono a stretto rigore parole,  non finisce per legittimare, spingere ancor più verso  questo rifiuto della lettura?
Ti dico questo perché mi capita sempre più di ascoltare,  da parte dei  miei allievi universitari, una cavatina che non mi piace affatto e che fa più o meno così: «No, professore, a me non piace leggere. Io non leggo».
E lo confessano apertamente, mi verrebbe di dire senza alcun pudore.
Io, se potessi, ‘e pigliassi a paccheri.
Ora un libro come Toglietemi gli specchi, rappresenta, tra le altre cose,  un pregevole tentativo di aprire un discorso articolato e profondo sul linguaggio scritto e sulla parola, e poi sulla bellezza. E per definire questa parola non a caso Mario, protagonista del romanzo, ricorre a un’affermazione di un “famoso autore”, mai nominato nel testo, che recita pressappoco: «La bellezza salverà il mondo».
Il concetto di  bellezza cui Mario fa riferimento, lo si capisce subito, è quella dell’arte.  Tutto il libro, nelle sue più nascoste sfaccettature, esprime questa tesi. E ne sottolinea anche l’ambiguità. E evidenzia il carattere ambivalente, polisemantico che è insito nello stesso concetto di bellezza.
E vengo al punto.
I concetti, lo dici anche tu, sono “parole” si legano alle parole e le parole sono “linguaggio”.
E il linguaggio del quale si parla nel libro e al quale fai continuo riferimento quando anche leggi ad alta voce tuoi brani, è fatto di segni ed è quello scritto.
Questo è, allora, il centro della questione. Se l’autore-scrittore è condannato alla solitudine, anzi della solitudine si nutre per portare a giorno le idee e il sentire che attraversano la sua anima,  lo stesso percorso, in qualche modo a ritroso,  è quello che segue il lettore.
La collaborazione tra autore e lettore o, meglio, la loro intima complicità, sta proprio in questo silenzio della voce e nella profondità delle parole, dei segni scritti,  che attraversano la mente e si fanno sensazioni, emozioni ma anche idee concetti, pensieri articolati in grado di trasmettere verità e menzogne.
E allora, la domanda che legittimamente si pone: non è che con tutto il “rumore” esterno, ballerini, chitarre, fisarmoniche, effetti speciali  si corra il rischio di deviare il lettore?
Assisteremmo così ad un ulteriore paradosso.
Tutto questo rumore attrae verso il  testo ma è anche fonte di distrazione, di allontanamento. Di allontanamento da quello stato di intima collaborazione che rende colui che legge lector  in fabula, come scrive Eco.
Il lector in fabula svolge un compito incredibile e lo fa attraverso la mediazione del linguaggio scritto, la fatica – alla quale siamo abituati fin dalla più tenera età – di interpretare, scomporre e ricomporre i segni scritti in suoni, quelli della nostra memoria e trasferirli nella parte più intima del nostro pensiero, trasformando le parole in concetti e suoni astratti, ma non il suono di un mandolino o una chitarra, bensì il risuonare della nostra anima, del nostro fondo più segreto. Gli umori impalpabili e spessi che fluiscono nel fondo dell’Io.
Il lector in fabula è lettore collaborante, e creatore, inventa dei suggerimenti appena accennati dalle parole, costruisce tutto il resto che manca nel testo, ambienti, suoni, rumori, vestiti, colori, identità, fisionomie, gesti, movimenti delle mani. E lo fa ricorrendo all’intimo bagaglio della memoria, la sua memoria vissuta. E rivive la storia, la sua storia, il riflesso del racconto nel suo territorio profondo di archetipi e memorie.  
Ad esempio quando Kafka inizia La metamorfosi, scrivendo che “Dopo una notte agitata Gregorio Samsa si risvegliò tramutato in un orribile insetto”, nel lettore si scatena la fantasia. Com’è fatto l’insetto, quante zampe ha, che colore ha, come sta sdraiato nel letto? Quando l’editore gli chiese dei suggerimenti per creare, in copertina, un’immagine dell’insetto, Kafka si oppose vivamente, sostenendo che era compito del lettore creare il mostro, la sua immagine. Era una sua libertà. 
Voglio dire che, non solo alla poesia e al linguaggio della narrazione non appartiene il “contorno” di rumori, suoni, musiche e danze, ma che rumori, suoni musiche e danze li deve creare il lettore su suggerimento che le parole gli alitano nella mente.
Altrimenti della lettura si perde una delle sue prerogative più importanti e magiche.
La lettura è opera solitaria, come la scrittura, ma profondamente partecipativa, comunicazione intima, profonda e essenziale tra una solitudine che se ne è stata per tanto tempo a scrivere e una solitudine che sceglie di spendere il suo tempo a leggere e a ricostruire, in maniera creativa, sensazioni, pensieri, concetti, visioni del mondo che transitano, si trasmettono da una mente a un’altra distante nel tempo e nello spazio.
Tutto qui, a parere mio,  il senso dello scrivere e del leggere.
Giungo al tuo Toglietemi gli specchi intorno al quale ho tentato, nella presentazione di sabato, tra balli e suoni,  di esprimere la mia particolare interpretazione.
Si tratta di un gioco a incastro, una storia di una storia. Questo intendevo quando evocavo l’immagine delle “scatole cinesi”.
L’autore Alberto Sarti, che ha un suo vissuto che decanta verso l’espressione e il trionfo delle sue idee ma altrettanto verso il disastro della sua vita e il suo personaggio principale, Mario, che insegue, contemporaneo vagabondo della grande città, uomo-senza–casa (secondo la notissima espressione felicemente inventata da Ladislao Mittner), una possibile idea di bellezza e felicità, sono gli elementi di questo incastro di coscienze, di vissuto.  
L’incastro delle storie è un pretesto, per te, per dilungarti su argomenti che spaziano dalla ricerca e definizione della bellezza alla passione politica, dall’impegno culturale necessario per proteggere la bellezza costruita, quella dell’arte, all’arroganza degli uomini perduti appresso alle loro passioni e le loro miserie, all’accumulazione e al profitto.
Suggerivo, nella mia lettura di questo tuo lavoro, due fonti importanti per chi volesse andare alla radice novecentesca dei temi che affronti. La lettura che, in Il linguaggio della poesia. Il luogo del poema di Georg Trakl,  Martin Heidegger fornisce del linguaggio specifico della poesia e del senso del poetare come ricerca del luogo ultimo del poema e delle parole, svilite, entropizzate dall’uso quotidiano che ne facciamo, e quella dei Quaderni di Malte Laurids Brigge,  dove Rainer Maria Rilke  definisce in maniera magistrale il rapporto senza radici che il vagabondo metropolitano stabilisce con la grande città, la Grossstadt di cui magistralmente Georg Simmel traccia limiti e confini in Metropoli e vita spirituale, uno dei saggi capitali per la comprensione dell’arte moderna e della poesia metropolitana.
Ma, quasi a riprova della paura  che ti confessavo all’inizio di questa nota, credo di essere stato poco compreso o frainteso, visto che di tutto questo discorso profondo che ha numerose tracce nel tuo lavoro, assolutamente nulla rimane nella lettura critica che ho potuto leggere on-line e le divertenti (si fa per dire) obiezioni di quello spettatore che ricercava un parallelo tra quello che ho detto e Il cappello del prete di Emilio De Marchi.
A quest’ultimo ho dedicato un sorriso e mi sono ben guardato dal dirgli che tra il Malte di Rilke e “u barone” protagonista del romanzo di De Marchi non esiste alcun rapporto di poetica e di profondità di pensiero. Nessuno, niente da fare, anche a volercelo tirare a forza. Divertente e pienamente  racconto giallo quello di De Marchi, senza alcun pretesa "alta", citato in ogni antologia di genere che si rispetti per essere il primo giallo italiano correttamente impostato e per essere ambientato a Napoli, alla via Speranzella. Ne fa menzione, con ampio corollario di particolari, uno scrittore più che esperto di questi argomenti come Massimo Siviero, con cui sono in contatto da tempo per apprezzarne lo stile fluido, napoletano, divertente, impegnato.
Di tutt’altra natura, ovviamente e non sarebbe nemmeno il caso di starci ad insistere se il pubblico fosse un tantinello più preparato e avveduto, Il Malte, poema tra i fondamentali del Novecento, frutto del lavoro intellettuale e artistico di uno dei più grandi poeti dell’età moderna. Nel quale si parla, tra l’altro, anche del rapporto alienato che esiste tra l’animo sensibile del poeta e il territorio maledetto della grande città contemporanea. In questo caso la città è, come tutti sanno, la Parigi degli inizi del Novecento, un rispecchiamento letterario della reale esperienza che Rilke visse nella capitale francese come segretario di Rodin di cui aveva sposato la nipote, la scultrice Clara Westoff.  Ed è la stessa di cui parla Baudelaire nei Fiori del male. Il tema, insomma,  dello scrittore intellettuale blasè, disincantato e cinico, che si oppone al fascino perverso e maligno della grande città e del suo spleen. Ma a questi lettori “distratti” – che probabilmente non solo non hanno letto il Malte ma neanche  il Cappello di De Marchi e che non sanno chi sia Baudelaire e nessuna idea su che cosa significhi spleen – non vale la pena rispondere. A loro si dedica solo un sorriso.
In conclusione, pur rispettando le idee e le sperimentazioni di qualsiasi natura, rimango della mia convinzione. E cioè che, in alcuni casi, è necessario osservare la tradizione, a costo di far naufragare le sperimentazioni: un libro pretende di essere discusso con le parole e il linguaggio scritto-parlato che sono l'essenza della sua nascita, al di fuori di qualsiasi possibile contaminazione. Perché le contaminazioni, anche se ci siamo abituati, in maniera un po' troppo accomodante con  certe consuetudini ideologiche,  a darne una lettura positiva, sono anche sinonimo di infezione, intesa come malattia e, dunque, di perdita della congruenza e unitarietà di quello che toccano, portandolo a macerazione, putrefazione  e, dunque, anche a morte certa. 
Un libro pretende di essere letto in solitudine e silenzio, pasto fecondo di un’anima sola che, nell'atto stesso del leggere,  stabilisce un lontano e profondissimo contatto con un’altra solitudine, quella dello scrittore certamente impegnato nella sua “esistenza solitaria” come tu stesso non manchi di ricordarci fin dalle prima battute del tuo romanzo.
Dunque se io dovessi presentare un mio libro pretenderei con forza un pubblico di lettori (che legge quello che cita e ne ha in qualche modo consapevolezza), dei critici attenti al testo (che anche loro leggano quello di cui si parla, che siano attenti a quello che si dice  e che non si facciano deviare, nella loro decostruzione della semantica di un testo, dai facili  epifenomeni circostanti)  e mi terrei lontano dagli altri suoni che rischiano, molto spesso, di trasformarsi in rumore diffuso che confonde le idee, rendendo un cattivo servizio proprio all’autore che nella parola ha congelato il suo significato più profondo.
Ah,  dimenticavo. Per chi legge mi sento in obbligo di specificare il personaggio che proclama “La bellezza salverà il mondo”. E’ ovviamente il principe Myskin, protagonista de L’idiota. E naturalmente viene sbeffeggiato proprio nel romanzo. 
Dostoewskij credette in questo principio. Almeno in una certa fase della sua complessa, tormentata e assolutamente contraddittoria vita. La critica successiva non fu tutta d’accordo. Si divise. Alcuni vollero anteporre a questo principio quello della supremazia della storia e dell'impegno civile e preferirono Tolstoi all’autore dei Fratelli Karamazoff. Altri si schierano sul fronte opposto, con il principe.
La questione è ancora tutta aperta e vitale. Io mi limito solo a sostenere che, per evitare pericolosissime confusioni,  l’estetica e l’etica se ne devono stare, per quanto possibile,  divise. Come scrisse Kierkegaard, impaurito dallo stato adolescenziale della mente e del pensiero che, inseguendo al bellezza, perdono di vista la difficoltà, la complessità e la serietà della vita. Le conseguenze di questa confusione le hanno vissute con terrore i nostri genitori, quando videro l’estetica (un certo senso piuttosto truce e triste dell’estetica) roboante e stucchevole dei passati fasti imperiali, prendere il posto dell’etica nella prassi politica, conducendo l’Europa verso la barbarie del fascismo e del nazismo.
Il tuo libro se  normalmente letto e discusso, lontano dai rumori che infastidiscono, è un bel libro. Da leggere, per l’appunto, gustandone i temi e le derive che sistematicamente aprono il testo in un susseguirsi di sfioccature ad "albero", come sapientemente il padre di una delle protagoniste femminili della tua storia, definisce l'arte. 
L'opera d'arte è come un albero sia sul piano simbolico, sia su quello strutturale. E il tuo testo tiene fede a questo principio, seguendo le derive di tanti discorsi paralleli, i Fujenti, Nunziatina l'amante innocente di Mario bambino, il teatro della Fenice che brucia e la nascita dalle proprie ceneri, le figure appassionate e sensuali del tango, Don Mario e il suo candido vestito che passeggia per il vicolo della Sanità, le figure contorte della grande metropoli, l'abbrutimento dei boss di camorra, i paesaggi urbani della grande periferia industriale svuotata di significato e funzioni, i vicoli stretti dove si rincorrono le voci femminili e i richiami, i rituali antichi e le moderne assurdità e soprattutto Napoli intesa come complessa sinfonia di migliaia di voci che intonano canti e preghiere perdute nel tempo. Tante storie parallele, quanti sono i rami e le foglie di una grandissima quercia secolare su  cui riflettere.
Un’ultima nota. 
So di essere poco sperimentale, ma non mi affiderei al popolo del web per ottenere una revisione attenta delle mie bozze. Preferirei un editor di mestiere. Quelli che svolgono un lavoro prezioso per gli editori. Eviterei così di farmi confondere le idee. 
Il popolo del web, oggi da tutti inseguito e corteggiato, nella maggior parte dei casi è inaffidabile e superficiale. Altro che democrazia liquida. Un autore va rispettato in tutto quello che produce, anche gli errori. Direi soprattutto per questi. Ma ci stiamo addentrando in  un altro discorso. 

giovedì 25 aprile 2013

Paul Saunders. Perché sparire?


Paul Saunders



di Giacomo Ricci

Un uomo normale, amante dei libri, dello studio e della solitudine. Con una gatta e una casa, volontariamente sparisce per un anno dalla comunità degli uomini.
Quando lo ritrovano è gentile, mansueto, consapevole di dove sta, che fa e che cosa ha fatto. Non si è reso conto dell’angoscia della sua mamma che lo  sa smarrito da un anno e non ne ha notizia. Non ci ha pensato? Forse. Non lo dice. Ma la sua urgenza, lui lettore accanito, amante di Shakespeare, uomo di cultura è stata, probabilmente, di ricercare il senso della sua vita. E non ha fatto caso al dolore che, involontariamente, ha trasmesso ai suoi affetti e a tutta la gente del paesino in cui vive e che gli è molto legata.
Per non farsi trovare, per un anno,  ha camminato  di notte e se ne è stato rintanato di giorno. Ha camminato lungo i corsi d’acqua per non farsi rintracciare, con la sola compagnia dei pesci, della natura e di se stesso.
Una storia che incuriosisce. Incomprensibile per la maggior parte di noi, presi dalla velocità della vita moderna delle grandi città, perduti nell’interesse (in senso vasto come interazione con i nostri simili e nel senso più comune di profitto), nella “ricerca della felicità”.
Ma di quale felicità si tratta? Quale sarebbe questa felicità che tutti noi ricerchiamo con tanto accanimento?
Eccolo l’interrogativo che figure apparentemente incomprensibili come Paul Saunders ci pongono in maniera diretta.  Chi siamo? Perché siamo? Che senso ha la nostra vita? Che senso ha la civiltà? La folla metropolitana?
E mi viene in mente qualcosa che ha a che fare con questa “stranezza”, come quella di Saunders di sparire. Un uomo mite, tranquillo, che tutti  riconoscono come tale, che sentono come tale.
Mi viene in mente quel racconto straordinario di Edgard Poe L’uomo della folla.
Forse tra i suoi più incomprensibili e in qualche maniera angoscianti.
Per chi non se lo ricordasse lo riassumo in breve. Poe racconta di essere stato ammalato. Una febbre che lo ha debilitato. Scende per la prima volta, dopo molti giorni di malattia, guarito ma debolissimo e si siede a un bar. E’ in una grande città. Seduto al tavolino si osserva attorno. Osserva la città in pieno fermento di vita. Ciò che lo colpisce è la folla che circola. Ne è impressionato, dopo esserne stato lontano per giorni.
Un fenomeno al quale sei abituato se ci sei sempre immerso, finisce per apparirti diverso se te ne allontani.  Così appare la folla a Poe. Un fluire magmatico, frenetico, incessante, angoscioso, una massa, un essere informe.
Ma lo colpisce, in quella massa anonima e ripetitiva, un uomo. E’ di mezz’età, strano, allucinato, un po’ volgare, povero per la sua giacchetta lisa. E ha lo sguardo fisso davanti a sé. Gli occhi vedono ma non vedono. Sono fissi, perduti nel vuoto. Sparisce nella folla, nella sua eterna circolazione.
Passa il tempo. La folla  continua a scorrere come una forza della natura. Fluisce per minuti, ore. Poi Poe lo rivede. Lo stesso uomo. Lo stesso sguardo allucinato. Cammina con la stessa espressione perduta, massa nella massa. Anonimo. Impenetrabile.
Ne è turbato. Passa altro tempo. Lo stesso intervallo di durata. Lo rivede. Si rende conto, alla fine, che quell’uomo non smette mai di camminare, annegato nella massa, nella folla che circola per la grande città. Essere perduto nella folla, trasportato dalla corrente, naufrago tra un’infinità di uomini che non conosce, con i quali mai più parlerà. E lo definisce, per l’appunto, l’ “uomo della folla”.
Un racconto, questo di Poe, tra i più allucinati e visionari. Nel quale affonda la sua poetica dell’assurdo e dell’angoscia. Una critica feroce, profonda, inattaccabile alla società moderna, all’alienazione dell’individuo perduto nella massa, nel suo totale anonimato.
Walter Benjamin ne diede un’interpretazione famosa, come metafora dell’alienazione capitalistica e della incessante circolazione delle merci. Un argomento che oggi, nella crisi economica, sembra di scottante attualità.
Ma non è questo aspetto sul quale intendo soffermarmi.  Quanto, piuttosto,  fare il paragone tra  questa vicenda letteraria creata da Poe e quella del vissuto di  Sanders.
E mi pongo una domanda. Tra le due realtà,  quella di Sanders che si sottrae alla civiltà per ricercare un profondo, intimo, assoluto, senso di comunicazione con se stesso e la sua condizione di stare nel mondo, isolato, immerso nella natura e nella notte, come un volontario “voler sparire”,  e quella dell’uomo di cui Poe racconta, che è solo, distrutto, alienato e folle nel cuore della massa più convulsa del mondo moderno che è la folla metropolitana, dico, tra i due  chi è più vicino alla radice dell’Io, alla ricerca consapevole del suo senso, alla domanda che ognuno di noi si porta, da sempre dentro di sé?
La risposta la lascio a voi.
Io, per conto mio, trovo grandi similitudini e affinità tra il Robert Walser autore de La passeggiata, uno degli scritti più illuminanti, poetici e profondi del Novecento e Saunders.
Camminare, vagare, osservare il mondo dal di fuori come massima esperienza esistenziale nell’alienazione della cosiddetta “civiltà moderna”. A che servirebbe la nostra velocità, il nostro consumismo, la nostra accumulazione di ricchezze beni e potere se non a scacciare via l’assurdità della nostra condizione esistenziale di cittadini moderni della grande tentacolare civiltà metropolitana?
E non è meglio perdersi nella ricerca di se stessi, nel senso assoluto dell’Io di fronte al mondo e alla sua responsabilità di vivere e fare, come fa Walser, camminare, scappellarsi davanti a una bella sconosciuta, osservare il mondo che scorre, la vita che lo anima dal di fuori,  saggiandone la superficialità e l’assoluta inutilità?
Sanders è un viaggiatore solitario in cerca del senso del Sé. Quello che ognuno di noi vorrebbe (e dovrebbe)  fare senza esserne consapevole. Nel senso che questa consapevolezza ci è stata strappata dalla civiltà moderna e le sue lusinghe.
Non sarebbe meglio sedersi su un prato, assaporare la luce del sole e cercare dentro di noi il senso a questa assurdità che abbiamo costruito, fatta di accumulazione e che ci ostiniamo a chiamare vita?
Non è tutto un trucco per non guardare in faccia alla realtà e al nostro Io più segreto e autentico? Io la mia risposta credo di individuarla, anche se a fatica. 
Grazie Saunders per avercelo ricordato con la sua discrezione e  la sua poetica gentilezza. 


Caro Giacomo,

ho preso qualche giorno di vacanza da università e computer, anche se non sono arrivata alla scelta di Saunders.Concordo pienamente sulla tua interpretazione di smarrimento controllato, credo sia anche 'voluto'. Si ha bisogno a volte di lasciarci tutto alle spalle, per poco magari, ma per ritrovarci.La vita di oggi e tutto il resto sono sicuramente incentivi, ma credo che l'essere umano abbia a volte il bisogno di 'fuggire' dal contesto 'sociale' di lasciarsi alle spalle per un po' anche l'Io, quasi a confondersi con la 'natura'. Quante volte, se ci pensi, lo desideriamo? Sei mai uscito sotto la pioggia,senza motivo,solo per la voglia di camminare senza meta e magari senza ombrello? E' una sorta di doccia per l'anima. Saunders,forse, ha solo cercato di 'rigenerarsi' più che di ritrovarsi, e forse dovremmo trovare il modo di farlo un po' tutti, credo ci farebbe bene.

Elianora Baldassarri

lunedì 22 aprile 2013

Napoli, salite e discese come metafore dell'esistenza (e della felicità)


di Maurizio Zenga



"Saglie saglie
Cu' sta sporta chiena d'aglie
Si nun saglie e scinne
Tutta sta rrobba nunn'a vinne
Sole, sole d'oro
'a mattina me daje forza
Mentre attuorno tutto more
Quanti vote 'mmiezo 'e mmane
Mmiezo ' e mmane aggio guardato
Quanti cose aggio perduto
Quanti cose aggio truvato
Sole, sole...
Saglie saglie
Cu' sta sporta chiena d'aglie
Si nun saglie e scinne
Tutta sta rrobba nunn'a vinne"
( Pino Daniele )

Caro Giacomo,
aderisco dopo  qualche giorno alla tua bella proposta di definire dieci luoghi di Napoli per un racconto breve della mia città. Mi gira per la testa un'idea che vorrei cercare di spiegare in poche righe e qualche foto rappresentativa. L'idea che Napoli possa essere, come nei miei ricordi giovanili (tra gli anni 70 e 80) una metafora dell'esistenza, fatta di salite e discese.

Salivo negli anni '70 via Pietro Castellino, che dal Vomero portava ai Camaldoli, per andare a scuola presso il vecchio (già allora fatiscente) Istituto Giovanni Porzio, dove sono nate e poi consolidate nel tempo le mie amicizie più profonde e i primi approcci con quell'umanità adolescente che ho poi ritrovato con nostalgia nei libri meravigliosi di Raffaele La Capria.

Il Castel Sant'Elmo e la certosa di San Martino

Scendevo invece qualche anno dopo  “giù Napoli” dal Vomero, dove abitavo vicino Piazza medaglie d'Oro negli anni '80, a volte compiendo strani  percorsi pedonali, ispirati più dalla curiosità che dalla necessità di trovare la strada più breve. Salivo ‘ncoppa San Martino e poi scendevo per  Calata San Francesco, che ho amato moltissimo per il godimento fisico che mi dava la discesa (un sollievo dopo la salita) e insieme la visione del panorama  impagabile che accompagnava  i miei pensieri mattutini.

Calata San Francesco

Vedere il mare dalla collina e avere la sensazione di poterlo raggiungere a piedi, non solo con lo sguardo è una sensazione che oggi mi manca moltissimo e che accresce la nostalgia di quegli attimi di pura e indescrivibile felicità.
Scendevo a volte per via Aniello Falcone che, dal Vomero, offre una diversa visuale del panorama del Golfo e che ha sempre rappresentato per me (e credo anche per te che lì hai vissuto anni cruciali) una zona speciale, piena di significato. In quella strada, sui suoi marciapiedi, nelle case che i miei amici a volte aprivano alle feste improvvisate o alle prove musicali, alle discussioni  politiche, ho cominciato a fare i conti con la musica, i miei compagni di strada, l'arte, le prime esperienze amorose. Via Aniello Falcone è una strada che definirei di sola discesa, le salite che mi ha offerto sono state  tutte “spirituali”...

Panorama del golfo da via Aniello Falcone

Scendevo da via Mezzocannone e poi da Monteoliveto per entrare stanco ma appagato nel cortile di Palazzo Gravina  e “salivo” tutte le rampe di scale per raggiungere il terrazzo, luogo incantato in quegli anni (stavolta cruciali per me) di “indiani metropolitani” e di utopie irrealizzabili e irrealizzate ma anche per il sole battente al quale esponevo il mio corpo e i miei libri, inutilmente aperti sul sedile di pietra.

Palazzo Orsini di Gravina

Uscendo da Palazzo Gravina, salivo a destra verso Piazza del Gesù (altro luogo della memoria) di cui ho più volte riprodotto l'obelisco centrale e mi infilavo nel chiostro di Santa Chiara a scambiare due chiacchiere con quel monaco ricurvo sulla sua vanga e finalmente leggevo, seduto sulle famose maioliche   e all'ombra filtrata del pergolato, nella pace più totale. Negata da sempre, almeno in quella particolare intensità, a tutti gli altri luoghi della mia città.

Il Chiostro di Santa Chiara

Salivo la stradina di San Sebastiano per la solita visita ai negozi di strumenti musicali e la chiacchierata con qualche amico, mi fermavo a Piazza Bellini. Ora mitico luogo della   cultura cittadina  ma per me approdo obbligato  nell'ora di punta per la straordinaria pizza dell'osteria all'incrocio con San Pietro a Majella e Portalba.

Via San Sebastiano, degli "strumenti musicali"

La felicità in  una pizza, massimo godimento del palato, tra il luogo dei libri per eccellenza e il Conservatorio del maestro De Simone, diversa da quella di cui dicevo prima ma pur sempre felicità raggiunta.
In via Costantinopoli, passando davanti all'Accademia di Belle Arti e al Liceo, un luogo per me importante e che resta nella mia memoria. Nell'angolo a sinistra, poco prima del Museo Archeologico, all'ultimo piano del grande palazzo ottocentesco a ridosso della Galleria Umberto: lo studio di restauro dei fratelli Tatafiore e lo studio privato del maestro  Guido, il padre. Bisognava salire tutti i piani del palazzo e poi l'ultimo in alto, il più segreto, il più bello, dove il maestro si chiudeva  circondato dal suo lavoro creativo e dal silenzio del suo raccoglimento. Se n'è andato con il terremoto lasciando, in molti di noi ragazzi che frequentavamo la sua casa-studio, la tristezza di non vederlo e di non sentirlo più al pianoforte o al contrabbasso nelle indimenticabili serate trascorse tutti  insieme.

Guido Tatafiore, Natura morta

Chiunque può salire oggi fino al Castel  Sant'Elmo, sulla collina di San Martino e vedere qualche sua opera nel Museo d'Arte contemporanea di recente costruzione. Ma bisogna “salire”, salire nel punto più “alto” di Napoli, in tutti i sensi.

Spaccanapoli da San Martino

Nel periodo degli studi ho avuto la fortuna di “scendere” per le strade di Napoli anche attraverso i  livelli sociali in cui la città è divisa da sempre, dal Vomero (collina residenziale considerata la zona medioborghese per eccellenza) mi sono trasferito per qualche anno ai Cristallini, abbascio 'a Sanità, una tra le zone  più popolari, e lì ho capito molte cose di questa città. Nessuno può capire davvero Napoli se non vede come si vive ai Cristallini, ai Vergini e che umanità resiste da secoli in quei vicoli pieni di aggressività, di violenza, di generosità, di  passione, di tradizioni, di fede e di bellezza.

Largo dei Vergini

Tra le dieci cose da non tralasciare nella visita a Napoli  è d'obbligo una “discesa/salita” all'Inferno/Paradiso della Sanità e una salita con l'ascensore (a ridosso del Ponte della Sanità, difeso nelle famose quattro Giornate di Napoli da Maddalena Cerasuolo con le armi) che vi riporterà  alla vita “normale” e al traffico di tutti i giorni,

Il ponte della Sanità con l'ascensore

 sulla strada che vi conduce  al Museo di  Capodimonte, per vedere cos' è stata l'Arte a Napoli nei secoli passati (da non perdere Luca Giordano) e per riposarvi all'ombra degli alberi del parco reale dove finalmente potrete aprire o' paccotto con il panino ‘e saccicce e friarielli che vi sarete fatti confezionare in una delle tante osterie casalinghe della Sanità.
Un godimento unico che non può che venire dopo la fatica un percorso in salita, ovviamente.

La reggia di Capodimonte nel parco