logo

logo
ebook di ArchigraficA

martedì 7 maggio 2013

Il grande pino racconta Furore e le sue storie




di Giacomo Ricci



Furore - Case monovano nel Vallone della Praia



Ero andato  a fare la spesa.
Pasqualino, sua madre e la loro bottega, a Furore, sono un punto fermo nella vita quotidiana di tutti i paesani. Li vedi ogni giorno, come fossero persone di famiglia, perché ci compri il latte, il pane, il formaggio, il vino, i biscotti. Un sorriso cordiale, tre parole e hai comunicato umanità e il piacere di vivere.
E, poggiata sul banco frigo, ho visto la locandina.
Il titolo a caratteri grandi mi ha colpito.
Raccontare Furore.
Poi, più sotto:
Seminario di due giorni, chi volesse partecipare deve comunicare la sua adesione …”.

Bello raccontare un paese. Se poi è quello nel quale si vive, è anche interessante, quasi una cosa dovuta. In particolare per uno come me che di Furore ha studiato tutto, o quasi.
Io ho già raccontato Furore. Tempo fa.
Ho scavato nelle sue storie, nelle case, tra gli alberi e la campagna, ho camminato per i suoi sentieri, mi sono arrampicato per le sue rocce, ho percorso il Fiordo e le sue costruzioni protoindustriali. Sono andato alla ricerca delle case più vecchie, ormai abbandonate, semplici rifugi di pastori, quelle per metà infilate nelle grotte, rupestri, assai antiche. Le ho rilevate, misurate, disegnate, fotografate. Ci ho ragionato su, le ho, in qualche modo, rivissute, immaginate di nuovo. Ho visto, pallidi riflessi della memoria,  i suoi abitanti e la loro vita dura, aggrappati a una roccia ventosa, aperta verso il mare.
Ho salito le sue scale dalla strada costiera in basso fino in cima,  ad Agerola, scoprendo angoli nascosti e vedute inaspettate.
E poi ho studiato i suoi panorami. Come fossero quadri da incorniciare. Perché meritano questo. Che uno li incornici nella sua memoria. Per sempre.
Non amo le parole che si usano nelle guide turistiche. Né le facili celebrazioni di cui sono piene. Ma qui ce n’è veramente da vendere. Di bellezza, intendo.
Un trionfo di natura, sole, mare e cielo.

L'infinito del mare e del cielo a Furore

Un quadro come quelli di Salvator Dalì, di infinite distese sotto cieli azzurrissimi da rasentare il surreale, il non vero.
Ecco, qui i colori naturali fanno impallidire il genio del pittore spagnolo.  Sono più smaglianti. Brillano negli occhi e aprono il cuore. Non avete mai provato a sedervi sotto una grande quercia, in un sentiero dimenticato, con gli uccelli che vi cantano sulla testa e lo sguardo che si perde verso la linea d’orizzonte? Io sì. L’ho fatto. Ho seguito il consiglio di Robert Walser, scrittore che ho nell’anima. La sua poesia semplice e profonda mi ha sempre commosso.
E non trovo parole per descrivere. Bisogna sentire, provare, aprire il cuore e la mente. Il linguaggio stenta ad arrivarci.


Furore - Sentieri e alberi


Forse è anche per questo che  vivo a Furore da più di dieci anni.  Perché qualcuno mi coinvolse in un progetto di ricerca che aveva come scopo quello di raccontare il paese.
Mi ci infilarono per la mia competenza informatica.
Si doveva costruire un ipertesto. E nessuno sapeva come fare. Per la verità anche le idee dei miei amici ricercatori erano sufficientemente confuse.
Io ero entrato a far parte di un gruppo di ricerca ad alto livello che aveva come scopo la costruzione del museo virtuale di Napoli, con una convenzione tra Università e l’Istituto di Cibernetica del CNR.
E avevo imparato a masticare di link e nodi, di metadati e strutture semantiche, di grafi ad albero, circolari e di reti, di ricorrenze tematiche, di motori di ricerca e così via.
So che oggi sembrano bazzecole per bambini. Ma stiamo parlando di quindici anni fa. Internet era un miraggio per pochi eletti iperspecialisti e FaceBook non l’avevano ancora inventata.
Così costruii un ipertesto. Abbastanza complicato, con interrelazioni, rimandi, filmati, scritti, riflessioni, brani di testo, immagini, disegni. Ma, alla fine, il mio non era altro che un racconto. Un percorso concatenato, come mi piaceva dire.
La tecnologia, molto spesso, nel campo delle idee  si limita al ruolo di sovrastruttura. Alla fine sono ancora (per poco) le idee che contano. Per nostra fortuna.
Il mio racconto piacque. E a me e alla mia famiglia piacque il territorio furorese. Lasciammo Napoli e la nostra casa. Ci trasferimmo a vivere. Ed eccoci qua. Paesani di Furore.

Viviamo in una casa bellissima. Una casa contadina tradizionale della costa, ristrutturata ma, in buona sostanza, lasciata com'era. Fatta di pergolati, terrazzi, campagna, alberi da frutta, vedute, cielo, glicini e buganvillee, viti, limoni, melograni e giuggioli, edere, gatti e cani. E su tutti, un pino secolare.
Il vero artefice dell'ordine domestico, della sua forma e della sua armonia è, ovviamente, mia moglie. Io svolgo, quando ci riesco, il ruolo di garzone. Mi piace osservarla quando decide, cambia, organizza, dirige qualcuno che ci dà una mano in campagna o fa opera di manutenzione. Instancabile,  decisa, irremovibile, una forza della natura. Spianta alberi, traccia solchi, mette a dimora piantine, pomodori, seleziona sementi, infila merletti alle finestre, cuscini ricamati suoi divani, fa pizze con lievito madre fatto da lei, addomestica glicini, cambia direzione alle buganvillee, decide colori, sceglie ornamenti, suppellettili, cornici. Seguita, in tutti i suoi movimenti, da una truppa di cani e gatti che vivono alla sua ombra, incuranti anche del sole, bastando loro il calore e l'affetto della loro padrona. 
Ma la mia funzione di narratore, almeno quella, è ancora utile a tutti noi. Almeno io lo credo.
A dire il vero a casa nostra, ma, più in generale, a Furore e in tutta la Costa d'Amalfi, sono le cose a raccontare storie e avvenimenti passati.
Basta saperle ascoltare, interpretare i segni che ci comunicano. Vivendo qui, ho imparato a farlo, almeno un poco.
Il grande pino se ne sta dal lato che affaccia sul Fiordo. Maestoso. Ha più di centocinquant'anni. Lo piantò, la notte di Natale, come la tradizione vuole, la bisnonna di Vittorio, il signore emigrato negli States,  che ci ha venduto la casa.
Le gentile signora, quando piantò il pinolo nella terra, si chiese: «Chi lu sape si è durese o mullese (Chi lo sa  è duro o morbido)». E già. Il guscio può esser duro o morbido.
Ma non fece a tempo a saperlo. Lasciò questa vita prima che il pino fosse grande abbastanza per dare frutti.
Che sono spessi, durissimi. Per aprire un pinolo è necessario un un colpo ben assestato di martello.
Ma, per me, i suoi pinoli sono i più buoni del mondo.
Il pino ha un'anima. Per me è ovvio che gli alberi abbiano un’anima. Proprio come la nostra. Se non  più complessa e con un linguaggio difficile da interpretare per i mezzi limitati degli uomini.
Ma qui lo ripeto con una certa enfasi,  perché la nostra epoca ha dimenticato molte cose della natura.  Ed è perché ha dimenticato troppo in fretta da dove viene che le agisce contro, con spietata determinazione.
Con la sua anima e il suo sentire il pino veglia sulla casa e la sua terra. Come facevano le vecchie divinità pagane del “limite”, nascoste sotto le grandi pietre di confine. Mi ha sempre raccontato la storia della casa, delle persone che l’hanno abitata prima di noi.


Ma mi racconta anche storie dell’aria e dei falchi che volteggiano in alto. Dei corvi neri che volano sempre a coppie lanciando il loro verso rude verso il cielo, dei tenerissimi uccelli appena nati nei nidi nascosti nel groviglio dei suoi rami in alto, della terra che le sue radici lunghissime attraversano arrivando ad uncinare la roccia sul fondo. Mi racconta dei lombrichi che rendono fertile questa terra in alta quota, degli esseri infinitesimi che la abitano, del ciclo continuo delle foglie che cadono e si macerano, dell’acqua che attraversa i muri a secco e scende fino a mare.
Lo fa d’inverno quando il vento passa sibilando tra i suoi rami e la sua grande chioma s’inchina verso il mare. Fa proprio come il vento di cui parla Andersen nella sua bella favola Il vento racconta di Waldemar Daa e delle sue figlie. Giù, sotto, verso il capo di Conca,  le onde altissime si spingono fino alla base della vecchia torre aragonese.
Anche le onde parlano d’inverno, con voce grossa, feroce.
Il vento fugge veloce sibilando nella grande insenatura del Fiordo e se ne sale, rotolando sulla parete rocciosa verso San Lazzaro.

Ma il pino mi permette anche di raccontarvi la storia di un luogo e di una “casa” singolari di Furore.
Mi permette di inventarne la storia. Il sito è quello di Centena e la casa è quella nell’immagine.  L’ho visitata per una ricerca che mi commissionarono qualche anno fa. Ma chi me la mostrò per primo fu Raffaele Ferraioli, sindaco di Furore. Me la mostrò come si fa con un gioiello di famiglia, una cosa preziosa. 
Fa parte di quei luoghi della Costa che si è convenuto di chiamare “rupestri” perché, della rupe alla quale se ne stanno addossati, sfruttano le caratteristiche e perché, spesso, rappresentano un ampliamento di una grotta o di una  cavità preesistente.
Quasi tutte le case di Furore hanno questa caratteristica di sfruttare una parete rocciosa verticale e  un incavo  roccioso della stessa per ricevere, in alto, una sorta di protezione.

Furore - La casa rupestre del sito Centena

La casa di cui parliamo è di un solo vano coperto con tre aperture: due porte, una ad est e l’altra a ovest, e una finestra verso sud. La parete a nord è costituita dalla roccia viva, lasciata così com’è all’interno, più o meno sbozzata.
Per descrivere questo insediamento è necessario un architetto che faccia lo scrittore o di uno scrittore che ami l’architettura. Perché richiama, per la sua scarna essenzialità strutturale, tutto il mito della capanna primitiva di vitruviana memoria che fu ampiamente ripreso nella manualistica dell’architettura a partire dalle prime opere enciclopediche di stampo illuminista.

Casa rupestre di Centena - scala sul retro

Questa casa è, a un tempo, elemento archetipico classico ma anche trattato, manuale di architettura, per tutte le tessiture murarie che il tempo ha scoperto, lasciandole in vista; per i materiali che adopera che sono tutti "naturali": calce, sabbia, pietra calcarea, lapillo pestato per costruire lo strato impermeabile della copertura, legno per gli architravi delle porte, lapillo e pietre per i gradini, travi di castagno a reggere il tetto. Tutto in vista,  con una straordinaria patina dorata che il tempo ha conferito alle malte, agli intonaci, alle pietre, agli attacchi, alla voltina ad arco che regge la scala, all’interno che somiglia più a una scultura in pietra viva  che non a un vano.

Casa rupestre di Centena - arco di sostegno della scala

Mirabile povertà che si trasforma direttamente in opera scolpita dall’uomo e dagli anni come fosse proprio un’opera di Moore, direttamente cavata nella pietra viva.
Un mito, più concettuale, logico, fondativo di una disciplina che storico, quello della capanna primitiva che qui vediamo materializzarsi davanti ai nostri occhi.
La concretizzazione dell’altro mito dell’uomo immerso nella natura che vive da solo un’esistenza eroica e alla ricerca di sé. Come scrisse Henry David Thoreau:

“Andai nei boschi perché volevo vivere con saggezza e profondità e succhiare tutto il midollo della vita, sbaragliare tutto ciò che non era vita! E non scoprire, in punto di morte, che non ero vissuto”.

Certo, si potrebbe obiettare che l’uomo del rifugio di Furore ha vissuto in condizioni estreme non per sua scelta ma per condizioni ambientali al contorno, per una radicata struttura collettiva della quale non abbiamo più ricordo e che quella casa, più che casa sembra il rifugio di un pastore. Mentre invece quella di Thoreau è una precisa scelta filosofica con grandi valenze ideologiche di condanna della società moderna e delle sue nefandezze.

Casa di Centena - interno

Ma - come dire? -  l’importanza di un segno ambientale e il suo trasformarsi in simbolo agli occhi di chi tenta di leggerne il significato, non sta tanto nel valore in sé quanto in quello che acquisisce dal contrasto con l’ambiente e la società in cui è immerso.
Io, con gli occhi di un uomo di oggi, vissuto per quasi tutta la sua vita in una grande città caotica e affollata,  non posso non cogliere in questo simbolo il richiamo verso un profondo significato originario dell’abitare.
E mi viene in mente la definizione che ne dà Heidegger quando dice che l’abitare dell’uomo su questa terra non può non essere se non all’ombra di quattro grandi principi raccolti nelle parole: cielo, terra, mortali e immortali. Il vivere, per Heidegger è piuttosto un colere, coltivare il campo e la vite (e soprattutto se stessi), sotto il cielo e la terra, rispettandone norme e confini, all’ombra dei mortali, cioè di tutta la collettività di cui si rispettano i principi e le leggi, e gli immortali, gli dei, Dio o i nostri antenati di cui rispettiamo la memoria e le tradizioni.
Così la casa solitaria di  Centena assume, per me, un grande significato simbolico e parla della vita e del senso di tutta la storia passata che sembra, oggi, irrimediabilmente perduto nell’assurdità della vita metropolitana.
E vengono in mente le teorizzazioni di Georg Simmel nel suo splendido saggio del 1910 Die Grossstadt und Geistesleben (La Metropoli e la vita spirituale) dove, analizzando il senso del vivere metropolitano, basato sulla continua intensificazione della vita nervosa a causa di choc sempre più potenti per attirare l’attenzione nella grande confusione generale, lo Spirito, proprio degli antichi e del loro modo di vivere, perde di consistenza a vantaggio dell’intelletto e dell’atteggiamento cinico e disincantato degli uomini.
E prende consistenza anche la paura di cui parla Poe nel suo L’uomo della folla, quando mostra come il singolo individuo tenda sempre più a spersonalizzarsi nel fluire magmatico e incessante della folla metropolitana che, come un fiume, tutto travolge per le sue strade, giorno e notte, senza mai fermarsi.
La casa di Centena con la sua fontana che raccoglie l’acqua che stilla goccia a goccia dalla rupe e la sua scala sospesa che s’arrampica veso l’alto e, la sua finestra aperta verso l’infinito del cielo che si tocca con il mare, ci parla di un’altra vita, un’altra soluzione, una scelta di campo e di un nuovo dialogo con la natura.
E il vento passa fischiando tra i rami mentre il vecchio pino mi racconta questa ed altre storie di Furore.


Giacomo Ricci vive a Furore da molti anni. 
Ha svolto numerosi studi e  ricerche su questo paese. 
I più importanti sono:
La costruzione de Il fiordo di Furore, ipertesto narrativo sul paese e le sue storie (2000)
Ha costruito il Museo virtuale del Fiordo di Furore (2001)
Ha scritto:
Itinerari narrativi tra realtà e simulazione, Liguori, Napoli 2006
Amalfi, Furore, Ravello. L'architettura del paesaggio costiero, Giannini, Napoli 2007
Ha progettato il Parco Urbano Sant'Agnelo in Furore, zona San Michele (illustrato nel saggio Il parco Sant'Agnelo,  pubblicato nella collana ArchigraficA Paperback) (2007-08)
Ha diretto, con Maria Russo,  l'Inventariazione e  rilevamento dei Siti rupestri della Costa d'Amalfi (2009)
Ha pubblicato nella collana ArchigraficA paperback il saggio La virtù della pietra. Siti rupestri in Costa d'Amalfi. (2010)
Ha progettato il Piano dell'Immagine Panoramica di Furore, adottato come strumento di lavoro dalla Soprintendenza ai BB.AA.AA.PP di Salerno (2010).