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ebook di ArchigraficA

martedì 11 giugno 2013

Io ti seguirò





di Claudio Cajati



È stata una lunga agonia, ma scontata. L’avevi provocata tu con la tua testardaggine nel farti del male.
T’hanno vestito di tutto punto, chissà perché si usa così, come se dovessi andare a una festa impegnativa. Impeccabile, t’hanno adagiato nella bara e, fra pianti sinceri o magari falsi, sono riuscito a farmi largo per darti l’ultimo saluto: una lunga leccata sul viso, ormai freddo e rigido, a cui la tua mano non ha potuto rispondere con una calda carezza. Poi due uomini mi hanno costretto a scostarmi – ho cercato di resistere ma erano minacciosi e determinati - hanno poggiato il coperchio e l’hanno avvitato.
Adesso sto accucciato in un angolo della stanza da letto. Il letto che dividemmo amorosamente, anche se d’estate dicevi che ero troppo caldo e non mi dovevo mettere sul tuo stomaco, ma ai tuoi piedi; anche se ti agitavi e ti rivoltavi un po’ troppo per i miei gusti, ma ero comprensivo, ogni volta, la cosa importante era starti vicino, vicino al mio amato.
Sono tre giorni che sei morto, e sono tre giorni che non tocco cibo né acqua. Tua sorella, che è un tipo premuroso, mi vuole per forza far mangiare e bere, e mi porta le due ciotole, cibo appetitoso e acqua fresca.
Ma io non accetto niente, resto testardamente fermo nel mio angolo, come se dovessi scontare una pena, come se la tua morte fosse anche colpa mia. E invece no, io anzi ho cercato di fartelo capire che l’alcool ti avrebbe fatto molto male e avrebbe accelerato la tua fine (Ho cercato perfino talvolta di nasconderti le bottiglie di whisky o di gin, ricordi?, ma tu tanto cercavi che le trovavi, e poi mi facevi anche un gesto come a dire “Ah briccone, me le volevi nascondere!”).
Ecco tua sorella che torna all’attacco, non riesce a rassegnarsi al fatto che non voglio mangiare e bere. Sembra più preoccupata di farmi star bene, che addolorata per la tua morte. E certo che mi ricordo alcuni vostri bisticci, spaventosi, non degni di un rapporto fra fratello e sorella. Ma in fondo non mi meravigliavo poi tanto: nella mia lunga vita – quattordici anni – ho imparato che gli umani non sono migliori di noi cani. Anzi.
Voi umani sapete fingere e mentire, mantenere il rancore e covare la vendetta, concepire il male e metterlo in atto, non disdegnate la violenza, anche gratuita, e sapete perfino concepire il gusto di uccidere. Cose che noi cani non facciamo e non sapremmo mai fare. Eppure ci leghiamo a voi, ad uno di voi, che diviene il nostro sacro padrone, e accettiamo rimproveri, trascuratezze, molestie, botte, offese (“figlio di un cane”, per esempio). Noi siamo sicuramente i vostri migliori amici, ma non si può dire che voi siete sempre i nostri migliori amici.
Tu però facevi eccezione: mi davi sempre il cibo migliore, magari quello che avevi cucinato per te, mi carezzavi e mi facevi le coccole, mi sussurravi paroline gentili all’orecchio, mi portavi dal veterinario appena stavo un po’ male, mi spazzolavi per farmi fare bella figura accanto a te per strada, mi portavi a passeggio regolarmente e capivi quando dovevo fare i miei bisogni, non mi strattonavi e tiravi come fanno tanti altri padroni, bestie che sono!
Perciò la tua morte è stata particolarmente dolorosa per me.
Stamattina finalmente ho accettato cibo e acqua. Ma non è un’interruzione del mio lutto. È solo perché voglio venire a trovarti, e perciò devo stare in forze, credo che il percorso possa essere lungo e insidioso.
Non so dov’è il cimitero in questa grande città. Ma con il mio potentissimo olfatto mi orienterò e lo troverò. E non ci sarà guardiano che possa impedirmi di entrare, o minacciarmi fino a farmi scappare fuori. Troverò il cimitero e troverò te.
Resisti, allora, non lasciare che la terra impietosa ti soffochi e abbia il sopravvento. Intanto già mi sono messo in marcia, nel traffico caotico che tenta invano di ostacolarmi. Presto sarò da te. Te che sei sempre, anche da morto, il mio venerato padrone.

Alla fine ho trovato il cimitero, e nel cimitero ho trovato te. Non tanto con l’olfatto, quanto con la vista: la tua foto, una foto da giovane – come eri carino – che tua sorella ha fatto mettere sulla tua tomba. E lì mi sono accucciato, ancora con il fiatone, poi tranquillo. Con le orecchie tese come se dovessi cogliere la tua voce, quella con cui mi chiamavi e guidavi.
Sono rimasto così per ore, credo. La gente mi guardava strano. Il guardiano è passato, severo, e ha fatto la mossa di cacciarmi. Ma poi ha visto i miei denti e ha rinunciato.
Infine sono tornato a casa. Dove tua sorella, preoccupatissima, mi aspettava da tempo. Mi ha chiesto dove mai ero andato. Ho cercato di farle capire. Ma non ha capito. Non immagina. Siete un po’ ottusi voi esseri umani.

Sono giorni che torno, quotidianamente, a trovare il mio padrone. Sono ormai una presenza usuale nel cimitero, e il guardiano mi guarda con compassione più che con fastidio. Forse ha perfino capito.
Adesso so che oggi sarà diverso. Non tornerò a casa da tua sorella. Perché rimarrò con te. E sarà per sempre: finalmente, come te, con te, troverò pace.