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ebook di ArchigraficA

martedì 8 ottobre 2013

Alle prese con la badante






di Claudio Cajati


Giulia, ora che sono morto anch’io, ti posso spiegare tutto per bene. E giustificarmi per quello che ho fatto dopo che mi hai lasciato. Che poi lo devo dire: una grossa responsabilità, anzi la maggiore, per tutto quello che mi è successo, ce l’hai proprio tu. Ma come?, voi donne siete più longeve di noi uomini, e tu mi vai a morire a soli sessant’anni! Mi hai lasciato solo, io che non so cucinare, non so sbrigarmela con i lavori di casa, e pure a fare la spesa me la cavo male.
L’unica figlia femmina che abbiamo ormai era sposata e doveva badare alla sua nuova famiglia, alla sua casa: non mi avrebbe potuto aiutare. Insomma, ho dovuto trovarmi una badante.
Tutti i nostri figli si sono subito preoccupati. Ma per loro, non per me. Si sono preoccupati che quella mi si appiccicasse addosso, che fosse una capace di abbindolarmi, di farsi lasciare un’eredità o addirittura di farsi sposare. Prima di tutto hanno pensato che quindi non doveva essere giovane, non doveva essere carina. Naturalmente me l’hanno voluta scegliere loro. E me l’hanno scelta sui cinquanta, grassottella, bassotta, piuttosto bruttina, polacca cattolicissima.
Marzena si chiamava, ma si faceva chiamare, con una punta vezzosa, Maggie. Era molto efficiente, scrupolosa, attenta. Non rompeva piatti o bicchieri, puliva a fondo, sapeva sempre quello che doveva fare, non c’era bisogno che glielo suggerissi o ricordassi io.
Con me era rispettosa ma affettuosa. Aveva slanci di solidarietà e dolcezza nei miei confronti che, scusa se te lo dico, tu non avevi mai, o quasi mai. Quando mi doveva aiutare ad alzarmi o a calarmi in poltrona, o quando doveva aiutarmi a lavarmi la schiena nella vasca da bagno, lo faceva senza ambigue malizie. E confesso che la cosa, che pure era segno di correttezza, mi dispiaceva un poco: le sue mani tonde morbide tiepide che mi scorrevano sulla pelle mi davano l’idea di un brivido diverso che avrei potuto provare se…
Il tempo è passato veloce, in una consuetudine monotona. Ma poi le cose sono cambiate fra noi. Ormai era quasi un anno che Maggie viveva con me. Adesso c’era grande familiarità e confidenza fra noi. Ma una familiarità che ha smesso all’improvviso di essere fraterna: in lei è emersa, prepotente, la femmina. E che femmina!
È stata una deliziosa sorpresa, la prima volta. Maggie mi ha preparato un caffè, è venuta verso di me che ero in poltrona e all’improvviso è inciampata – o ha fatto finta di inciampare – tanto da rovesciarmi il contenuto della tazzina sui pantaloni. Anzi proprio sulla patta. Allora si è precipitata a prendere uno strofinaccio, l’ha bagnato abbondantemente ed è corsa per togliermi la macchia: premeva con lo strofinaccio bagnato sulla patta, ma soprattutto strofinava sul mio uccello, impazzito di piacere. In poco tempo sono arrivato bagnandomi tutto. Allora lei con la massima disinvoltura mi ha slacciato i pantaloni, me li ha tirati via, e mi ha pulito l’uccello leccandolo a lungo con la stessa meticolosa cura con cui usava fare le pulizie. (Ho pensato: Ecco, la sua fissazione per la pulizia, però…)
Un giorno, poi, che stava lavando il pavimento vicino al divano su cui leggevo il giornale, lei è scivolata – o ha fatto finta di scivolare – e in un istante mi è caduta in braccia. Il suo tondo e massiccio fondoschiena proprio sul mio uccello, che ha cominciato a gonfiarsi. Lei allora ha fatto come per tentare di rialzarsi, mentre mi guardava fra mortificata e allusiva. Ma non riusciva a rialzarsi – o faceva finta di non riuscirci – e con movimenti scomposti non faceva altro che strofinare il suo culo sul mio uccello ormai tutto in erezione. Ha continuato così, a lungo, a lungo. E io non ho potuto fare a meno, anche questa volta, di arrivare. Lei ha ripetuto il rito del lavaggio, questa volta ficcandoselo tutto quanto in bocca, fino in fondo alla bocca.
Da allora abbiamo cominciato a fare sesso in tutte le maniere. Come due giovani amanti impazziti di desiderio. Soprattutto lei, anche quando io ero stanco, voleva fare sempre comunque l’amore. E lo sapeva fare benissimo, come una consumata professionista (tu ci mettevi tutta la tua buona volontà, ma non c’è proprio paragone con quello che mi faceva provare Maggie). Eppure io, nonostante i miei sessantacinque anni, mi dicevo che era anche merito mio: lei faceva così perché ero ancora un uomo virile e desiderabile. Mi piaceva pensare che lei volesse fare tanto sesso con me perché le piacevo, anzi le piacevo assai.
Un giorno che a letto mi stava titillando teneramente i coglioni con la sua sapiente lingua, mi ha guardato fisso negli occhi e graziosamente, timida eppure risoluta, ha chiesto con il suo italiano approssimativo: “Vuoi tu me sposare?”. Io ho pensato a te, ma soprattutto ai nostri figli che si erano tanto raccomandati di non fare una sciocchezza del genere. Dovevo educatamente dire no. Ho detto, d’un fiato, sì.
Ci siamo sposati in municipio in gran segreto, assolutamente di nascosto dai nostri figli. Non sia mai l’avessero saputo – loro ignoravano pure che io e Maggie facevamo sesso –  sarebbe stata una tragedia.
Dopo la cerimonia Maggie era raggiante. Mi ha fatto l’occhiolino e mi ha assicurato: “Adesso te farò essere ancora più felice”. E subito i suoi assalti erotici si sono fatti perfino più frequenti ed eccitanti. Io insistevo a sentirmene lusingato, mi piaceva pensare che ero il maschio gagliardo benché maturo che lei voleva.
Ci ho messo un sacco di tempo a capire la verità: lei voleva semplicemente farmi crepare. Consegnarmi alla felicità definitiva. E, come ora puoi costatare, c’è riuscita. Noi due siamo qui, di nuovo insieme, ma fra i morti. Lei intanto si gode la sua cospicua quota di eredità. E invano i nostri figli stramaledicono lei e me.