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ebook di ArchigraficA

martedì 4 novembre 2014

Napoli dal tram

Ripubblico una serie di saggi, riflessioni e articoli che mi sembrano ancora validi. 
Dò inizio con un saggio-racconto che fece da introduzione a un'idea un po' folle della CLEAN edizioni di organizzare una passeggiata in tram per illustrare tutte le opere moderne che si incontravano lungo il percorso    calssico del tram, dal Dazio di Bagnoli a Poggioreale, un attraversamento complessivo di tutta la città da occidente a oriente. Bellissima esperienza, simpatica, divertente, a tratti comica. I passeggeri erano i fruitori del lungo discorso che alcuni di noi tennero lungo il percorso, parlando dal megafono. Un'esperienza veramente singolare. Magari da ripetere. 


il mitico tram a cavalli napoletano, nei pressi del San Carlo



 Napoli dal Tram

Una passeggiata con  incontri fuori dell’ordinario    

“Il tram? E chi lo prende più!”  pensavo  prima di stendere le note che seguono. Il tram, infatti,  sembra un mezzo di trasporto e comunicazione definitivamente tramontato. Chi, nel millennio venturo del trionfo telematico, utilizzerà più questo aggeggio in acciaio, lamiera e motore elettrico, sferragliante e scampanellante, legato al suolo per via delle rotaie ed all’aria dall’ alimentazione che corre su fili? Se mai avrà un periodo di nuovo splendore, sarà, soprattutto, perché trasformato in mezzo “rapido”, sfrecciante  e in viaggio quasi sempre  al buio, in galleria, sottoterra. Ma, allora, in queste condizioni, quale Napoli potrà mai apparire al futuro viaggiatore?
Ma, nonostante tutto, il tema mi affascinava, forse proprio per la sua inattualità; per il fatto che il tram è una specie di residuo di quella “modernità antica” – del tipo della Torre Eiffel, del ponte sul Garigliano, delle pensiline con colonnine in ghisa delle stazioni ferroviarie che sono, ormai, quasi tutte distrutte, delle decorazioni floreali dei negozi di Gay Odin e così via – non foss’altro che per la sua stretta parentela con le carrozze e perché all’inizio, anch’esso, era tirato dai cavalli. E, forse, per queste sue radici nell’ottocento, il tram finisce per assumere il valore di una metafora per osservare  l’architettura moderna con occhi disincantati.
Ma si trattava pur sempre di un debole pretesto vagamente letterario, poca cosa per fare da bordone al compito affidatomi. Sennonché qualcuno ci aiuta sempre quando ci sentiamo perduti. Magari in sogno, proprio come è capitato a me.
Sotto la suggestione  dei ricordi infantili legati al tram, sognai di trovarmi dalle parti di piazza Sannazzaro, all’uscita della grotta. Me ne stavo lì ad appuntare le prime osservazioni  che avrei riportato nelle brevi schede che m’ero impegnato a stilare, quando  vidi un tram proveniente da Fuorigrotta uscire dal tunnel scampanellando. Un tram desueto di colore verde, più piccolo di quelli oggi in circolazione, proprio come quelli che, negli anni cinquanta,  scorrazzavano avanti ed indietro da Poggioreale al Dazio di Bagnoli. Si fermò  vicinissimo a me. Provai a salirvi ma non so per quale motivo non ero capace di arrampicarmi sui gradini troppo alti. Non ci sarei riuscito se una fine mano inguantata di bianco non fosse venuta in mio  soccorso tirandomi su.
Feci per ringraziare il mio gentile soccorritore e quale la mia sorpresa nel vedere il principe  in persona con il suo più bel sorriso dissimmetrico e smagliante augurarmi “Buongiorno” togliendosi la bombetta, scotoliandosi nelle maniche troppo larghe e lunghe del “fracchesciasse”, impostando un piede in avanti ed uno indietro in segno di un’appena accennata burattinesca riverenza così mostrando, al di sotto dei pantaloni a zompafuosso troppo larghi, uno splendido paio di calzini bianchi che fuoriuscivano da eleganti scarpe nere di vernice. Mentre per la sorpresa e il piacere di rivederlo in carne ed ossa,  non riuscivo a proferir parola, lui, con la massima naturalezza, mi invitò a sedere su di uno scranno di legno come quelli che una volta c’erano sui tram, proprio accanto al suo compare di sempre, con baffetti, cappello da “cafone” incasato fino alle tempie, ed un pacchettino di paglia intrecciato  ben stretto sottobraccio. Peppino mi fece un gran bel sorriso. Girai lo sguardo   intorno e riconobbi molti di quelli che erano seduti nella vettura e mi guardavano sorridendo. C’era Vittorio con i suoi baffi grigi in alta uniforme da maresciallo dei carabinieri, e, più in là Federico, con il un bel mantello scuro e la lobbia che mi salutò garbatamente con il suo pacato accento romagnolo, e, tra i tanti altri, al posto di guida, distinsi la grande mole del manovratore. Mi guardava con il suo faccione con doppi e tripli menti e borse enormi sotto gli occhi, lo sguardo bovino, borbottando incomprensibili parole.
- Aldo, vai, parti – gli disse il principe e, poi, rivolto a me:
- Sì – mi prevenne – lei sta sognando. E che male c’è? Tutti noi  - e indicò i passeggeri del tram che annuirono soddisfatti - lo facciamo sempre. Anche voi, quaggiù, dovreste farlo più spesso.   Mi hanno detto, caro Ricci,  che lei è in difficoltà con questa faccenda dell’architettura “moderna” e del tram. E, così, visto che lei è stato, fin dai tempi del Teatro Nuovo, un mio sincero ammiratore, mi sono permesso di approfittare dell’occasione per incarrettare un po’ di amici e fare questa passeggiata. Sa – proseguì  con il suo sorrisetto ammiccante – è molto tempo che manchiamo  da queste parti e molti di noi erano ansiosi di rivedere Napoli e qualche bella donnina, ih, ih, ih….- Mi tirò una gomitata di complicità. Riprese: -  E, poi, mi permetta, ma che cosa vogliono capire lei e i suoi contemporanei di tram, carrozzelle e architettura “moderna” o “modernista” che dir si voglia, tanto è l’istesso. –
Approfittai al volo dell’occasione che mi si offriva: - Vuol dire che sarà lei, principe, a farmi da Cicerone? –
- Noi tutti, a turno – e indicò i suoi compagni di viaggio. Lasci fare, lasci fare a  noi che siamo “uomini di mondo”, di cinema e spettacolo e ne sappiamo molto delle città, quelle finte intendo, quelle di cartapesta, quelle dei sogni, insomma. –
- Quelle di cartapesta – intervenne Federico – sono più vere, non le sembra? Proprio come i ricordi, quelli veri sono inventati di sana pianta. Io, almeno, in ogni mio film ho fatto sempre così… -
Assentii, ormai tranquillo. Avrebbero pensato a tutto loro ed io avrei potuto godermi in santa pace quella passeggiata senza nessuna preoccupazione. E al diavolo le schede e la mania di raccogliervi le cose degne d’interesse che è propria della nostra epoca in un impeto da piccoli collezionisti che si accontentano di catalogare come se ciò volesse veramente dire possedere, comprendere intendo.
- So – intervenne Peppino come se mi avesse letto nel pensiero - che gli organizzatori dell’itinerario le hanno fornito un elenco delle opere più rimarchevoli. -
- Si – gli risposi, frugandomi nelle tasche alla ricerca della busta con il foglietto dattiloscritto con il breve elenco di opere.
- Noi non ci atterremo strettamente a queste indicazioni – disse il principe – Sa, a dirla con franchezza, a tutti noi la maggior parte dell’architettura “moderna” non dice molto…
- Anzi – aggiunse Aldo ad alta voce dal fondo mentre avviava il tram lentamente – per me è proprio truce! –
- Ma – feci preoccupato – non  mi combinerete scherzi?…
- Si, lo sappiamo – mi interruppe Peppino – Gli architetti sono quasi peggio delle prime donne e delle loro lotte per il nome sulle locandine. A parlarne male  si rischia di vedersi cadere addosso strali, fulmini e maledizioni. –
- Sa – dissi – mi trovo in una posizione delicata, non vorrei creare difficoltà agli organizzatori, all’editore…, sono tutti miei cari amici … -
- Suvvia, saremo soltanto un po’ piccanti… quel tanto possibile – aggiunse il principe battendomi affettuosamente con la mano sulla spalla.
- Vedrà che non la deluderemo – disse Peppino.
- Ma, insomma, per noi il tempo stringe - intervenne d’autorità Vittorio – e per lei, Ricci, le pagine scarseggiano. Vogliamo andare? –
- Io inizierei questo itinerario dalla Stazione di Mergellina. – intervenne Federico -  Inviterei i nostri visitatori a guardare con attenzione soprattutto le pensiline in ferro, il prospetto interno  che si affaccia sul parco binari, le colonnine in ghisa, i pavimenti di marmo, il legno delle biglietterie. E’ un luogo dal quale è bello partire ed arrivare.  Da qui la città appare pulita, ordinata, discreta, moderna ma allegra. Una stazione che sembra un vero e proprio salotto.
- E, poi, scendendo giù, verso piazza Sannazzaro – aggiunse Peppino – ci sono alcune cose da osservare come, ad esempio, l’edificio di Arata nella sua bella soluzione d’angolo verso il corso Vittorio Emanuele. E’ di un eclettismo contenuto e questo ne accentua il valore formale.
- Ahò, anvedi er cafone come s’è piazzato – gridò, tra le risate di tutti, Aldo dalla grande mole dal suo posto di manovratore.
- Cafone sarai tu! – si stizzì Peppino – Che vuoi capire di Napoli, tu che vieni da Roma e ti ritrovi qui soltanto perché sei l’unico capace di manovrare un tram! E poi, ricordati, in più di un’occasione, nel cinema, non sei andato al di là dell’aspetto e del ruolo di pescivendolo! –
- Ma insomma – intervenne il principe – se cominciamo così diamo un brutto spettacolo – Poi, guardando fuori dal finestrino aggiunse – Siamo quasi arrivati alla Torretta. –
Per la via di Mergellina mi fecero notare lungo la strada un bell’esempio di edifici in cortina; soluzione tipica dell’edilizia “storica” napoletana, ci disse Vittorio, che si sarebbe riproposta, nella sua bellezza, per tutta la lunghezza della Riviera di Chiaia.
Alla Torretta il tram si fermò per far salire un ritardatario della comitiva. Nino, era lui quello in ritardo,  salì sorridendo con la sua paglietta a tre punte facendosi precedere da una bruna signora dalla scollatura vertiginosa che attrasse immediatamente l’attenzione di tutti i presenti. Poi, e non poteva essere diversamente, cantò a squarciagola il “Tram della torretta” e concluse con “Ciccio formaggio”. Finito che ebbe, dopo aver ringraziato per gli applausi scroscianti che seguirono la sua esibizione, mi tese la mano.
-Quello è l’edificio della torretta – mi disse.
-Non le sembra finto? – mi fece Federico – Comprende, ora, che cosa intendevo dire prima? Sembra tagliato nella carta, una costruzione di cartone come se non avesse spessore…-
- Ma questo – aggiunsi timidamente – può essere anche un pregio… -
- Sì, in un film certamente. Ma nella realtà? –
Il tram, intanto s’era avviato verso la Riviera.
- Qui le cose cambiano – mi informò Vittorio – Ci sono due belle costruzioni  “moderne” da vedere, anzi da intravedere nel verde. –
Vittorio si riferiva all’edificio del Club del tennis e a quello del Circolo della Stampa. Opere semplici a due livelli, vetrate verso il mare, geometrie senza alcun fronzolo, verde in abbondanza all’esterno per nascondere in gran parte le pareti. Sobrietà ed eleganza.
- Sono tra gli esempi più belli del razionalismo– mi confessò Federico – che incontreremo lungo il percorso. Semplicità come eleganza quasi si trattasse di un’assoluta mancanza di stile. Come dire? Lo stile è quello della necessità, una necessità alta, quasi un bisogno spirituale, trasparenza al sole ed alla bellezza del mare, all’aria e assoluta discrezione nell’inserimento urbanistico. –
- State zitti ora – ci disse Peppino – Siamo giunti alla nostra tappa importante. –
Il tram si fermò. Aldo ci fece scendere tutti e s’avviò, poi,  verso piazza della Vittoria, il principe si allontanò dicendo che si andava a preparare mentre noi visitavamo l’edificio del Circolo della Stampa e la bella scala interna. Dopo un po’ Peppino mi disse:
-Venga, venga Ricci, le abbiamo preparato una sorpresa – e mi prese sottobraccio conducendomi fuori, verso la Cassa Armonica di Alvino.  S’era radunata, intorno alla costruzione di ferro e vetro,  una gran folla. Provai un grande senso di stupore: per la bellezza di quell’architettura che ogni volta che la guardo  mi avvolge in una specie di brivido di piacere mentre gli occhi non possono fare a meno di scorrere lungo le esili e slanciate colonne in ghisa fino al grande aquilone di ferro e vetri verdi e gialli che costituisce il cappello di copertura con il cono centrale a punta e la visiera laterale con il suo lieve impennarsi verso l’alto. Ma fui meravigliato anche dalla folla che c’era: damine con grandi vestiti  dalle gonne rigonfie di pizzi e merletti e cappellini con trine e nastrini colorati; uomini in vestiti gessati o bianchi, cappelli e pagliette; bambini che correvano in tondo con palloncini rossi e blu, girandole, bandierine, trombette e stelle filanti; e, ancora, signori anziani in doppio petto e gilè dai vivaci colori, a righe, a pois, a stelline verdi, arancio, lampone; e venditori di ogni cosa, bruscolini, taralli, candidi, frutta secca, bibite, granite e grattate di menta, limone e fragola, verde-bandiera, bianco  e rosso-vermiglio, in uno slancio patriottico rinfrescante e alla buona.
E lì, sul podio della cassa armonica, l’orchestra, in verità una banda al completo, che aspettava il suo maestro. E questi non si fece attendere: tra gli applausi scroscianti il principe, al secolo “maestro Scannagatti”, che s’era cambiato d’abito vestendosi da pazzariello, una bacchetta nelle mani, diede subito inizio al concerto più bello della sua fulgida carriera, aiutato da violini grattanti, bassotuba irriverenti, pernacchie, mosse del corpo e delle mani, movimenti ritmici della testa di qua e di là, lingua da fuori e occhi stralunati e, poi, le mani a simulare fuochi d’artificio, tricchi-tracchi, castagnole, bengala, razzi e fuia-fuia.
E, finalmente, al suono della fanfara dei bersaglieri, tutti di corsa per la Villa Comunale, lui avanti che girava attorno agli alberi e le aiole, saliva e scendeva dai prati, s’infilava in porte e porticine dell’acquario in un complicatissimo percorso a spirale verso piazza Vittoria e noi altri dietro, orchestra, trombe, sassofoni, grancassa, Vittorio in alta uniforme che affannava e bestemmiava tra i denti per non fare brutta figura e Nino che gridava “Managgia a vita mia” seguito dalla sua splendida sciantosa sculettante che s’era tolte le scarpe con i tacchi e correva di buona lena. Io tra gli ultimi, sudato e affannato, ma felice, seguito da Peppino che con una mano teneva ben stretto il pacchettino di paglia e con l’altra si manteneva il cappello, ansimando e borbottando tra i denti, furioso come non mai: “Questo caspita di compare mio non cambia mai, neanche all’altro mondo!”.
Arrivammo, non si sa come, alla fine della Villa. Si trattò di una di quelle corse liberatorie che possono avere luogo soltanto in sogno – o in un film – ché a farle davvero ci si rimetterebbe, con il caldo che fa dalle nostre parti, la pelle in men che non si dica. Ci sedemmo tutti in terra ridendo quasi fino alle lacrime e aspettando che sulla sinistra facesse il suo ingresso, da un momento all’altro, Aldo con il suo tram. Federico, che se l’era presa comoda a passo lento sotto gli alberi giunse proprio in quel momento:
- Stanchi, eh? Approfittatene e guardate verso l’alto, proprio a fianco dell’edificio della Nunziatella, sul monte Echia di fronte a voi potete ammirare un’opera “moderna” di un certo rilievo, l’edificio della Sip progettato da Pakanowsky, un bell’esempio di corte alberata aperta verso il mare…
Peppino, ancora affannato, ebbe la forza di dire:
- Bello, sì. Ma ti darebbe la forza di correre e ti trasmetterebbe tutta la gioia come è successo ora con la Cassa Armonica di Alvino? -
- Certo che no…
- Ecco il tram – interruppi io, temendo commenti più azzardati e compromettenti. Il tram apparve scampanando. Ripartì subito verso la galleria della Vittoria non appena fummo tutti saliti e la folla ci salutò sbracciandosi e gettando in aria i cappelli. Il principe dal finestrino sul retro ringraziava scappellandosi a più non posso e inviando baci con entrambe le mani. Immediatamente usciti dalla piazza si giunge all’ingresso della galleria, una soluzione studiata e progettata da Roberto Pane, dopo aver vinto il secondo grado del concorso ma, come precisò Vittorio, la realizzazione si discosta molto dalla previsione di progetto, anche se Pane, molto apprezzato come storico,  critico ed intellettuale non ha goduto di altrettanta fama come progettista.
- Devo dire di amare gli uomini creativi ma di vedere di malocchio gli intellettuali. Nei miei film ho sempre riservato loro una brutta fine – aggiunse Federico. Cominciai a sudare, temendo battute più pepate. Come Dio volle ci tuffammo nel buio della galleria e così anche questi commenti furono troncati sul nascere. All’uscita, onde evitare il peggio,  presi in mano la situazione e dissi:
- Cari amici, da quest’altra parte della galleria le opere monumentali della Napoli antica e storica sono così pregnanti e cariche di significato che, credendo di anticipare ogni vostro giudizio, quelle “moderne” non possono che, per così dire, “sfigurare” tranne rare eccezioni. Ma è nella forza delle cose. L’architettura moderna, checché se ne pensi (e credo che, molte volte, come sostiene Aldo , finisca, nella sua crudezza, anche per diventare truce) ha un indice di adeguamento ai tempi, alla loro pressione, allo stesso spirito dell’epoca “nuova” che è quello dell’assoluta negazione del superfluo, dell’aderenza ai flussi di denaro, ai bisogni di grandi masse di uomini. E, dunque, permettetemi di segnalare ai nostri visitatori i pochi luoghi eccezionali e il solido “mestiere” che incontreremo lungo la strada… -
Furono, grosso modo, d’accordo con me. Si trattava, insomma, precisò Vittorio, di un passo indietro, verso il “neorealismo” e, anche lui, nei suoi film, aveva gettato via qualsiasi compiacimento formale, per parlare al fondo dell’anima, per scovare, al di sotto del “povero”, del “brutto” e del “marginale” il senso della vita.
- Molte opere che incontreremo lungo la via Marina – proseguii, soddisfatto per la piega che le cose avevano preso -  appartengono a questa logica anche se di stili formali diversi: la stazione marittima, il palazzo ad angolo di piazza municipio di Canino, l’edificio del collocamento e così via. Sono opere importanti ma non ci si deve aspettare da esse cose che non promettono, voli e leggerezze che non era nelle intenzioni dei loro autori.
Naturalmente, proseguii, analogo era il discorso per opere che non erano direttamente sul nostro cammino ma che, con un po’ di buona volontà un visitatore avrebbe fatto bene a raggiungere come l’Hotel Vesuvio e  il Continental sul lungomare di via Partenope. Mi sentivo di segnalare, ad un visitatore, anche  la galleria Umberto I  che, nonostante fosse un’opera pienamente ottocentesca secondo una rigorosa classificazione cronologica, poteva considerarsi “moderna” in tutto e per tutto per l’idea che rappresentava e per l’uso splendido dei materiali ferro e vetro che costituivano una linea rossa vivissima di modernità all’interno dell’ottocento interrotta troppo prematuramente dall’uso massivo del cemento armato.
- E quali sono le eccezioni di cui lei prima parlava? – mi chiese Federico.
- Sono due: una è il mercato ittico progettato da Cosenza ad appena ventiquattro anni, un’opera geniale per impianto e concezione, perfettamente legata all’esperienza razionalista “classica” che a quel tempo si andava maturando in Europa della quale si dovrebbe parlare molto ma il tempo a nostra disposizione pare sia ormai per scadere e l’altra, alla quale sono particolarmente affezionato, è opera di quello che è stato il mio maestro, un’opera semplice e, per questo, altrettanto geniale, la stazione della Circunvesuviana di Giulio De Luca…
- Questa la conosco bene – interruppe il principe – Me ne hanno parlato: una “tettoia” in cemento che è un miracolo d’equilibrio dove le masse si contrastano secondo principi chiarissimi e generano la forma… -
Eravamo arrivati quasi alla fine del nostro percorso, quando con voce indisponente Aldo se ne uscì:
- A professo’ e quer coso che pare un disco… si insomma, un disco volante che s’è infizzato su er palo? – e fece cenno verso il porto ad una costruzione molto appariscente dal punto di vista formale, con larghe superfici e volumi di rotazione in aggetto come “vassoi”, corpi vetrati e piloni a tutt’altezza.
Quello che temevo era successo, proprio in chiusura! Aveva ragione Peppino, il comportamento indisponente di Aldo lasciava molto a desiderare. Dovevo assolutamente tentare un aggiustamento. Tutti mi guardavano divertiti in attesa di come me ne uscissi da quell’impiccio.
- Si tratta di un’opera molto particolare, ed assolutamente inconsueta nel panorama napoletano antico e moderno. Certo … è, come dire…,  insolita, curiosa ecco!  Ma mostra una forte ricerca linguistica, uno sperimentalismo avanzato e assolutamente innovativo.  E, comunque, vi piaccia o no, l’architettura moderna è anche questo. Certo, appartiene ad un modo di esprimersi molto … soggettivo… e …
-Basta, basta… - mi mise a tacere il principe e, poi, rivolto agli altri che avevano assistito divertiti al mio discorsetto – Però, il pover’uomo se l’è cavata. – E di nuovo rivolto a me:
-  Caro Ricci, non c’è bisogno di giustificare niente e nessuno. Ognuno è libero, almeno finora, di seguire la sua strada. Anche se, ad onor del vero,  una casa dovrebbe somigliare ad una casa, una strada ad una strada e una piazza ad una piazza e lo sperimentalismo dovrebbe, alla fine, approdare a  risultati stabili, come dire?, classici… –
- Ma il suo tempo è scaduto!  - mi salvò definitivamente Vittorio.
Fecero fermare il tram. Eravamo nei pressi del Ponte della Maddalena.
- Se vi allungate più avanti – dissi – potrete visitare anche la Stazione Centrale. E’ un edificio di ampio respiro; vi hanno lavorato i migliori.
- Sarà fatto – mi disse  il principe, stringendomi la mano – A ben rivederci… - Rivolto agli altri – Ragazzi salutate – Seguì un “arrivederci” di tutti in coro. Il principe,  poi rivolto a Peppino, mentre scendevo:
- Oh, giovanotto, penna, carta e calamaio, su. Sei pronto? –
Peppino si era aggiustato alla meglio per scrivere sotto dettatura.
- Signorina, veniamo, noi, con questa mia addirvi…una parola. Scusate se sono poche, … ma settecentomila lire, a noi ci fanno specie che quest’anno c’è stata una grande morìa delle vacche come voi ben sapete, punto, due punti. Ma sì, abundandis in abundandum …Che dica che noi siamo tirati, cafoni … -
Vidi Peppino con sguardo malinconico stringere il pacchettino di paglia sotto il braccio, quasi a piangere l’abbandono forzato di quel piccolo tesoro. Poi si sporse dal finestrino e me lo passò con un sorriso, dicendo:
- Professo’, non si offenda, noi avevamo pensato che le facesse piacere… -
La porta si chiuse e il tram se ne partì scampanellando allegramente.


Mi avevano pagato, per un mio lavoro! Allora mi resi conto che si doveva trattare per forza di un sogno. E mi svegliai subito.